La scorsa settimana
ci eravamo lasciati con un’ipotesi fondata sulla ragionevolezza; avevamo
infatti ipotizzato che
l’adesione dei soci di BPM e Banco Popolare alla fusione dei due istituti avrebbe
determinato un clima di maggiore serenità fra gli operatori della borsa milanese
e, grazie anche alle ipotesi di riassetto del Monte dei Paschi di Siena, ciò si
è verificato. Una volta tanto
Piazza Affari chiude la settimana sugli scudi, migliore piazza del nostro paniere
con un rialzo del 3,47%.
Settimana, quella
appena terminata, interamente in positivo, eccezion fatta per il mercato
elvetico che arretra dello 0,68%. Tutte le altre piazze chiudono in territorio
positivo, con il Brasile largamente positivo (+3,19%), il Nikkei appena sotto
il 2% di rialzo, l’India che segue con un +1,46% e le due maggiori piazze
europee, Francia e Germania, rispettivamente a +1,46% e +1,23%. I rimanenti
indici del paniere chiudono la settimana con rialzi racchiusi fra il +0,10% della
Gran Bretagna e il +0,89% della Cina.
Settimana positiva,
investitori soddisfatti ma investitori istituzionali che invitano quasi unanimemente
alla prudenza, nella piena consapevolezza che le problematiche sul tappeto sono
ancora numerose e cariche di pericoli
latenti.
Il grafico seguente
ci illustra il buon andamento della settimana uscente.
La mancanza di
spunti nuovi unitamente alla poca voglia di evidenziare per l’ennesima volta
quali nodi importanti ci siano da affrontare per riportare in equilibrio il
sistema economico globale mi hanno indotto a girare la testa da un’altra parte
e a riflettere su un aspetto che normalmente si trascura, ossia quello di considerare,
allargando adeguatamente la finestra temporale delle nostre analisi, al di là dei
dati che quotidianamente ci pervengono (rapporto p/e degli utili, ipotesi di
interventi delle banche centrali e conseguenze sugli indici azionari, dati sul
mercato del lavoro, piuttosto che sul sentiment degli investitori, ecc.) in che
posizione si trovino i nostri indici rispetto ai massimi di mercato.
Dato che si tratta
semplicemente di dare delle informazioni fondate su delle constatazioni di
fatto senza alcuna pretesa di confermare ipotesi che non vengono nemmeno formulate,
invito i lettori a non trarre dalle nostre osservazioni alcuno spunto operativo
che sicuramente li potrebbe trarre in inganno.
Che cosa ne è
venuto fuori da queste osservazioni? Innanzitutto che il mercato che per primo
si è trovato ad affrontare una situazione caratterizzata da molti aspetti in
comune con quella nella quale versiamo a livello globale è quello giapponese; pochi
ricorderanno che il massimo storico dell’indice Nikkei è stato registrato nel
lontano 1989 e la perdita subita da allora ammonta a un bel (si fa per dire)
-56%.
I massimi di
Italia, Francia e dell’indice Eurostoxx 50 sono stati toccati nel lontano 2000,
epoca della storica bolla internet (così la ricordano i più). E’ quantomeno
istruttivo toccare con mano che la vecchia Europa è entrata in crisi – di fatto
– da ben 16 anni; i problemi della nostra economia dunque sono riconducibili
innanzitutto alla capacità produttiva e alla scarsa competitività. Mali
profondi allora, aggravati da una struttura finanziaria piuttosto fragile,
almeno in alcuni paesi della comunità europea.
Nel 2007 e nel 2008
i massimi borsistici sono stati toccati (e mai più rivisti) in cinque paesi:
Cina, Hong Kong, Svizzera, Russia e Brasile, sostanzialmente i cosiddetti BRICS,
ossia i paesi che a quell’epoca esportavano a più non posso verso le economie
occidentali. Il rallentamento generale sta ancora pesando, impedendo loro di
crescere ai ritmi di quel dorato periodo a causa della carenza di domanda aggiuntiva
proveniente dall’estero.
Le manovre di
facilitazione avviate dalle banche centrali hanno prodotto effetti
significativi, almeno a livello borsistico, sugli altri mercati. Nel 2015 nuovi
massimi vengono raggiunti sulle piazze finanziarie di Londra, Francoforte,
Bombay; anche l’indice World MSCI nel 2015 raggiunse i suoi massimi. Nel 2016
ritoccano i precedenti record i due principali indici statunitensi, lo S&P
500 e l’indice Nasdaq.
La nostra,
volutamente, vuole essere solo una passeggiata storico-statistica, nulla di
più. Resta da capire se tutto ciò che è stato fatto in questi lunghi otto anni
che ci separano dal fallimento di Lehman Brothers, il fatidico anno zero della
finanza, sono serviti a rimediare agli errori di quegli anni oppure se abbiamo
solo assistito a interventi-tampone - (utili ma insostenibili in modo
permanente - e, per loro natura, destinati a far ripiombare l’economia nel
vicolo cieco nel quale si era infilata.
La figura
successiva ci illustra il quadro della situazione da noi esaminata.
Ci avviciniamo alla
fine di ottobre e il pensiero va alle elezioni americane del mese prossimo. In
apparenza abbiamo già un vincitore (Hillary Clinton) e uno sconfitto (Donald
Trump) ma Brexit ci ha insegnato a non trarre facili conclusioni da sondaggi e
sensazioni epidermiche. L’impressione che abbiamo, ad oggi, è che vincitori
veri non ce ne saranno ma che ne uscirà comunque sconfitta la democrazia
americana e l’autorevolezza degli USA in campo internazionale. Speriamo di
essere in errore; abbiamo già perduto così tante certezze in questi anni che l’ulteriore
mancanza di punti fermi non sarebbe certamente la benvenuta.
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