Perché si
tende a procrastinare il passaggio generazionale e questo ritardo impedisce la
messa a punto di una razionale e ponderata decisione e, talvolta, trasferisce
il problema alla prossima generazione che, spesso, non è preparata? Sono state
date molte risposte a questa domanda.
Io
partirò commentando
tre recenti passi.
Il primo
è tratto dall’intervento di Ignazio
Visco, Governatore della Banca d’Italia. In occasione del Convegno del 30
marzo: “La ricchezza della nazione. Educazione finanziaria e tutela del risparmio”, ecco una prima
osservazione:
Per gli adulti occorre sfidare
pregiudizi – la
convinzione, ad esempio, di saperne già abbastanza – e creare incentivi ad apprendere. Perché
l’offerta di educazione finanziaria incontri la necessaria domanda, bisogna che
si rafforzi tra i cittadini la consapevolezza che un buon livello di cultura
finanziaria si riflette, attraverso scelte economiche di breve e lungo termine
più consapevoli, in un maggiore benessere, individuale e sociale.
A questo
riguardo mi limito a osservare che ci sono due vie per rafforzare tale
consapevolezza.
La prima è evidenziarne i vantaggi in termini di
benessere materiale e di vantaggi per il patrimonio. La
seconda, che cerco da anni di perseguire, consiste nel mostrare che questa problematica
è interessante di per sé. Si tratta, infatti, di una materia che è
spia del funzionamento della mente umana. In altre parole la materia ha un
interesse intrinseco come cartina di tornasole dei meccanismi cognitivi e
emotivi, e non solo come interesse estrinseco, finalizzato alla gestione del
patrimonio.
Ovviamente
le due motivazioni non sono in contrasto. Finora, purtroppo, questo obiettivo
non è stato raggiunto se è vero, come è vero, che:
… la Banca d’Italia ha, tra i propri compiti, quello di accrescere
l’alfabetizzazione finanziaria per migliorare il cosiddetto “benessere
finanziario” (financial well being) dei risparmiatori. In Italia le indagini
disponibili sugli adulti e sugli studenti segnalano un livello di educazione
finanziaria particolarmente basso. Con riferimento agli adulti, l’indagine
Standard & Poor’s “Global Finlit Survey”, realizzata nel 2014 su 140 Paesi,
colloca l’Italia all’ultimo posto tra i Paesi europei, con solo il 37 per cento
tra gli adulti che risponde correttamente ad almeno tre delle cinque domande su
concetti di base (interesse semplice e composto, inflazione, diversificazione
del rischio).
Per
raggiungere tale obiettivo è bene, sempre secondo il Governatore:
… al fine di affrontare i rischi in modo consapevole è importante, altresì,
comprendere i benefici del ricorso alla consulenza finanziaria professionale:
molti ancora preferiscono i suggerimenti di familiari e colleghi; il ricorso
alla consulenza qualificata in Italia è ancora limitato e cresce al crescere
della cultura finanziaria.
In
sostanza il Governatore ci dice che la maggioranza degli italiani non sa, e non sa di non sapere. Insomma che
è superba. Creare incentivi ad apprendere? In una fase iniziale solo
i consulenti possono svolgere questo ruolo di agenti per l’ “educazione
finanziaria”. E tuttavia, in seguito, io credo, o forse spero,
che il più rilevante compito del
consulente finanziario, oltre a gestire il patrimonio affidatogli,
sia puntare sulla curiosità umana, incentivando il desiderio di capire
come funziona la nostra mente: in fondo la cultura finanziaria è
solo un sottoprodotto di questo interesse, se ben coltivato.
Voglio
fare un esempio, a tale riguardo, prendendo spunto da una recente osservazione
di Carlo Benetti:
… Tra la
visita in Russia di Lincoln Steffens nel 1928 e il 1960, il PIL sovietico era
aumentato del 6% all’anno, un tasso di crescita eccezionale, conseguito a
dispetto dell’arretratezza e dell’inefficienza allocativa delle risorse. Un
progresso che aveva impressionato gli osservatori occidentali, sorpresi anche
dal lancio in orbita della capsula Sputnik con a bordo il primo animale, la
cagnolina Laika e pochi anni dopo, nel 1961, il primo uomo, Yuri Gagarin.
Nel suo
celebre manuale di economia, Paul Samuelson scrisse che l’Unione Sovietica
avrebbe superato gli Stati Uniti nel 1987 o, al più tardi, dieci anni dopo.
Nell’edizione del 1980 la previsione era confermata, spostata al 2002 e al
2012. Solo negli anni ’80 si comprese che la potenza sovietica appoggiava su
piedi d’argilla.
Eppure
questa previsione non aveva tenuto conto di come funziona effettivamente
l’uomo, dei limiti della mente umana, e di come funzionano gli uomini
all’interno delle imprese. Di conseguenza le imprese stesse sono organizzazioni
in cui gli scambi sono privi di costi di transazione, o per lo meno, hanno
costi di transazione molto più bassi di quelli necessari per prendere accordi
sul mercato. Come osservavo recentemente sul Sole24Ore (2 aprile 2017):
L’inizio
della storia risale alla grande intelligenza di uno studioso inglese, Ronald
Coase (1910-2013). Giovanissimo, com’è testimoniato da una lettera che manda al
suo amico Fowler il 10 ottobre 1932, era andato oltre l’ovvio. Provate a
chiedere a una persona dotata solo di senso comune perché un’azienda esiste e
perché è così grande? Vi dirà che la dimensione è quella che è perché chi l’ha
fatta e la gestisce pensa che quella sia la grandezza più conveniente. Questa
risposta non è altro che una riformulazione della domanda, come spesso capita
nell’economia e nella psicologia ingenue.
Fu Coase
ad avere la risposta giusta e, da allora, come lui raccontò in occasione del
premio Nobel il 9 dicembre 1991, “il sole non cessò più di splendere” (forse
alludeva al nome del sobborgo di Londra dove era nato: in anglosassone
significa la collina della primavera).
Immaginiamo
che nel mondo non ci siano organizzazioni.
Avremmo
solo quella che Coase chiama concorrenza atomistica, cioè il lavoro di
individui singoli: potremmo immaginare persone con un libro IVA che si mettono
ogni volta d’accordo per produrre qualcosa. “Nei fatti – scrive Coase a Fowler
– non è così. Perché? Credo che la ragione debba essere trovata nei costi per
condurre a termine queste transazioni di mercato”, cioè i costi psicologici
necessari per giungere a un accordo tra più persone libere e presenti nel
mercato del lavoro. Questi costi sono eliminati in un’organizzazione gerarchica
in cui i superiori dicono ai dipendenti che cosa fare. E l’organizzazione nasce
e cresce perché riesce a operare con un costo inferiore a quello delle
transazioni di mercato che vengono sostituite.
Coase va
negli Stati Uniti con una lettera di presentazione di Ernest Bevin, il più
importante sindacalista inglese, e studia le relazioni delle imprese
automobilistiche con i loro fornitori, dimostrando la correttezza della sua
impostazione teorica (oggi i suoi due lavori più importanti hanno più di 65mila
citazioni su Google Scholar, un record).
In
un’organizzazione complessa nessuno ha un quadro completo della situazione e il
comando permea i diversi livelli gerarchici. Se si dovesse sempre convincere
tutti, tanto varrebbe contare solo sulla concorrenza atomistica. Farne a meno
fino a un certo punto è vantaggioso, ma anche pericoloso se il comando non è
esercitato con intelligenza.
Ecco, ciò
di cui ci parla il Governatore non è forse un’altra variante della cosiddetta
illusione della conoscenza? Una
forma di superbia: credere di poter fare a meno di un consulente pur avendo una
bassa preparazione finanziaria? Se le cose stessero così anche il procrastinare o il trascurare il
problema del passaggio generazionale non sarebbe altro che una variante di tale
superbia.
Io credo però che gli
uomini siano tendenzialmente superbi ma non stupidi, e che quindi accettino
l’evidenza, almeno quando questa arriva a dosi massicce. Solo che ci vuole un
certo tempo, bisogna che un punto di svolta sia maturo e consolidato prima che
la maggioranza delle persone se ne renda conto. Farò alcuni esempi a questo
riguardo nel campo che a noi interessa. È dal 2004 che i prezzi del mercato
azionario americano sono convenienti rispetto ai titoli di stato, eppure la
preferenza per le azioni è più recente, quando ormai l’evidenza è consolidata e
massiccia.
Lo
stesso vale per il recente entusiasmo per le economie emergenti, malgrado i
loro tassi superiori di crescita rispetto alle cosiddette “economie ricche”
siano consolidati da tempo.
Tant’è
vero che gli emergenti sono ancora a sconto rispetto ai cosiddetti mercati
delle nazioni “sviluppate”, malgrado i forti incrementi recenti.
Più in generale possiamo vedere un manifestarsi della
superbia, come caratteristica permanente della natura umana, nella tendenza ad
accentuare entusiasmi e delusioni. La superbia, infatti, prima non ci fa vedere
i punti di svolta e poi ci fa reagire in modi che cercano di cancellare ai
nostri occhi i ritardi dell’attenzione. Una sorta di “dissonanza cognitiva”,
dove le emozioni rincorrono i dati oggettivi molto più stabili. Di qui lo
scarto tra dati “oggettivi” e “atteggiamenti soggettivi”.
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