Abbiamo
già accennato al fatto che, per il cliente ingenuo, in ogni campo delle
pratiche umane, un esperto dovrebbe riuscire a fare meglio della media di
quello che fanno tutti gli altri, esperti e inesperti, in quel dato settore di
attività.
Tale credenza è rinforzata
dal fatto che
ci sono delle gestioni attive che fanno meglio delle
corrispondenti passive, soprattutto in un’epoca ricca di sorprese (per il ruolo
delle sorprese, rimando a p. 77 e segg. del mio recente "Economia nella
mente").
La figura mostra come, da marzo 2016, fino a ottobre
2016, l’indice delle sorprese “Citi Economic Surprise”, molto utilizzato, abbia
battuto in modo positivo le aspettative sugli scenari europei. Fonte: Bloomberg
modificata.
Un altro motivo che fa sì
che non sia facile accettare le conseguenze delle gestioni passive è di ordine
psicologico. Le gestioni passive richiedono la capacità di trattare in modo
equivalente perdite e guadagni e questo è veramente molto arduo sul piano
emotivo, soprattutto per un investitore poco "educato
finanziariamente" come quello italiano. Le strategie passive creano
portafogli con forti direzionalità e pochi sanno aspettare dopo le sofferenze
patite durante le forti discese (già due nel corso di questo secolo). Via via
che i risparmiatori statunitensi opteranno sempre più per le passive – e non
dimentichiamo che il 2016 è stato l’anno del grande soprasso delle passive
sulle attive sul più grande mercato della gestione del risparmio del mondo –
sarà sempre più indispensabile, per un consulente di un cliente medio,
correggere in un portafoglio azionario la forte direzionalità causata da una
gestione della componente azionaria esclusivamente passiva.
La figura mostra come il
risparmiatore abbia dovuto "sopportare" due punti di svolta dovuti a
forte calo nel 2000 e nel 2007/8. Peraltro, se una persona sa aspettare un
lustro, la discesa è più che compensata (come peraltro non è avvenuto con i
fondi immobiliari italiani di cui parlo qui sotto). E tuttavia cinque anni sono
l’eternità per l’investitore non preparato, cioè per la maggioranza degli
italiani, e la stragrande maggioranza di chi si rivolge a un consulente.
Resta il fatto che questo è un forte limite psicologico per chi si affida
totalmente alle gestioni passive se non è dotato di nervi forti e di
prospettive temporali lunghe.
La figura mostra le forti direzionalità delle borse
statunitensi nel corso di questo secolo. Ora, come alla fine degli anni 90 del
secolo scorso, i 4 indici hanno toccato contemporaneamente record storici.
Fonte: Bloomberg modificata.
Fonte: Bloomberg modificata.
Un ulteriore motivo che
rende utile la consulenza ha a che fare con il fatto che i mercati sono
sorprendenti e la gestione attiva può sfruttare tali discese nei modi descritti
in "Economia della mente". Un gestore attivo può sfruttare tali
sorprese per battere le gestioni passive, almeno talvolta, e almeno per un
certo periodo di tempo. Molto difficile peraltro che ciò avvenga sui tempi
lunghi e, talvolta, anche su tempi non troppo lunghi. Si pensi che su un
campione di 318 fondi che comunicano con puntualità a Plus24 le variazioni a un
anno del benchmark prescelto per ogni singolo fondo, soltanto 70 hanno fatto
meglio del parametro di riferimento (Gianfranco Ursino, Plus24, 7-1-17, p. 23).
Questo è anche un effetto del peso sempre più rilevante delle gestioni passive
che riducono la varianza all’interno del paniere di titoli che compongono un
indice perché il meccanismo "cieco" della gestione passiva tende ad
aumentare sia le correlazioni tra i singoli titoli che la direzionalità
complessiva. Negli USA, nel 2016, solo tre, tra i dieci titoli più trattati,
sono stati titoli singoli corrispondenti a specifiche società, gli altri 7 sono
ETF o indici analoghi. Sottolineo, quindi, che questi sono effetti che,
quasi per paradosso, rendono più indispensabile la consulenza per l’investitore
italiano medio.
Tra i dieci titoli più trattati nel 2016 negli USA
solo tre sono titoli corrispondenti a specifiche aziende. Fonte: Bloomberg modificata.
L’indice delle sorprese elaborato da City mostra che
il mondo è andato meglio di quanto non ci si aspettasse in tutte le più
importanti regioni del mondo. Fonte: Bloomberg modificata.
In relazione alla necessità di consulenza, comunque, il motivo più rilevante di tutti è la relativa sfiducia in tutto ciò che passa per la rete, e cioè negli investimenti in assenza di un consulente umano che ci mostri la sua faccia e che ci conosca come persone "nella nostra globalità" oltre che come risparmiatori/investitori. E' di questo consulente che gli italiani hanno bisogno visto che il “fai da te” ha portato a portafogli sbilanciatissimi impoverendo complessivamente la famiglia media.
A questo riguardo vi voglio
raccontare una storia paradigmatica. Molte storie analoghe a questa
sgretoleranno forse la fiducia nella rete come fonte d’informazioni per
questioni che ci stanno a cuore, come appunto la gestione dei nostri risparmi.
L’Oxford Dictionary, la
bibbia della lingua inglese, si arricchisce ogni anno di una nuova parola.
Quest’anno la scelta è caduta su "post-truth", un termine
composto che descrive il nuovo mondo del “dopo-verità”. Il termine indica non
tanto il fatto che circolano informazioni false sui media, per esempio in
occasione della Brexit o dell’elezione del presidente degli Stati Uniti. Da
sempre, quanto più l’esito di un’elezione politica è considerato rilevante,
tante più frottole circolano.
La post-verità è altra
cosa. Abbiamo a che fare con la creazione di un fatto preciso che si presume
accaduto e documentato. L’inventore del fatto innesca il tam-tam ossessivo
della rete. In questo senso la post-verità si accompagna al mondo nuovo e
speculare della post-falsità. Le informazioni sembrano documentate e, a chi le
diffonde, non importa se sono false.
L’esempio più famoso è
stato ricostruito in dettaglio. La storia inizia a Austin, in Texas, quando
Eric Tucker, alle 8 di sera del 9 novembre, mette su Twitter la foto di un
autobus con il commento: "Le proteste anti-Trump non sono così spontanee
come sembra. Ecco l’arrivo dei partecipanti". In quel momento solo 40
persone seguono i messaggi di Tucker. Sapendo della protesta, e trovata per
caso una foto su Google, Tucker suppone (in buona fede, dice lui) che l’autobus
sia quello usato dai protestatari (in realtà si tratta di partecipanti a una
conferenza). Il giorno dopo, alle 12.49, l’immagine compare sul sito di Trump.
In poco tempo la notizia rimbalza 16mila volte su Twitter e 350mila volte su
Facebook. La compagnia degli autobus smentisce. Eric Tucker,
interpellato dai giornalisti, spiega: “Ero rimasto colpito dall’immagine degli
autobus e sapevo delle proteste". Ammette però: "Non ho visto le
persone con i miei occhi". Trump commenta: “Molto scorretto. I
professionisti della protesta, incitati dai media”. A quel punto Tucker toglie
la notizia dal suo sito. Troppo tardi. La valanga procede. A mezzanotte Tucker
rimette sul sito la foto con la scritta: FALSO. Riceve solo 29 risposte.
Nessuno gli bada più. Dopo una settimana i suoi seguaci sono diventati 980 e
Tucker confessa: “Cercherò in futuro di fare affermazioni più obiettive e
documentate”. Tucker non conosce le regole con cui funziona l’attenzione,
selezionata dall’evoluzione naturale per essere risucchiata da aspettative e
schemi già predisposti.
In questa storia si
manifesta tutta la nuova potenza della rete, ma ci sono anche tracce d’antico.
Gaetano Kanizsa, il fondatore dell’istituto di psicologia di Trieste, nel 1952
fa un esperimento pionieristico. Sottopone a 23 studenti di una scuola di
assistenti sociali il test di Meurisse chiedendo loro di fare uno scarabocchio
senza mai staccare la matita dal foglio. La forma dello scarabocchio,
interpretata da un esperto, dovrebbe svelare la personalità. In realtà Kanizsa
presenta la stessa descrizione di personalità a tutti i partecipanti. E’
uguale, ma è fatta bene, in modo apparentemente circostanziato: la maggioranza
dei partecipanti vi si ritrova. Ben più stupefacente è la ripetizione
dell’esperimento da parte di Paolo Zordan, nel 2000, con 28 studenti del quinto
anno di una facoltà di psicologia. Zordan ottiene lo stesso risultato. Tutti
gli studenti, tranne uno, credono che la diagnosi sia verosimile. Credono
perché desiderano credere. E desiderano credere perché vogliono diventare
psicologi clinici.
Alla luce di tutto ciò, è
fuorviante equiparare l’elezione di Trump a una sorta d’intrattenimento condito
di evidenti panzane. Le persone non vogliono credere che siano frottole, almeno
quando sono d’accordo. Per questo i nostri talk-show funzionano con scambi
accesi e contrapposti: post-verità per tutti. Il caso limite è un’immagine
semplice, immediata, in grado di risucchiare l’attenzione dei seguaci, come nel
caso di Tucker. Ne è consapevole il co-fondatore di Facebook, Mark
Zuckerberg, che dichiara: "Noi gestiamo una comunità (di 1.8 miliardi di
utilizzatori) e non saremo arbitri delle loro verità". Per l’appunto: le
loro verità. Alcuni esperti ritengono che sia più comodo e gratificante pascersi
di storie post-vere invece di praticare gli esercizi faticosi della buona
logica. Forse un altro modo di ribellarsi al pensiero dominante delle élite? E
tuttavia opinioni condivise, emozioni e credulità sono contro-producenti in
occasione delle scelte, o meglio delle non-scelte, che attengono agli
investimenti, alla salute e, più in generale, alla vita.
Torniamo all’Italia. E’ di
questi giorni la notizia delle decine di migliaia di risparmiatori che, pur
possedendo già immobili, hanno comprato dieci anni fa fondi immobiliari
italiani (con immobili locati nel nostro paese) nella convinzione, allora
diffusissima, che “il mattone non tradisce mai”. Sono così riusciti a
incrementare la non diversificazione dei loro risparmi trovandosi con fondi che
alla fine della loro corsa si sono ridotti assai di valore.
Secondo molti commentatori
il dibattito sulla post-verità avrà come effetto quello di rendere poco
credibile le notizie che circolano in rete e, più in generale, l’affidabilità
di questo strumento “a distanza" per affrontare i problemi che ci stanno a
cuore, tra cui la gestione dei nostri risparmi. Non sappiamo se queste
previsioni siano fondate. Quel che è certo è che i risparmiatori italiani
preferiscono il contatto diretto con il consulente. Quest’ultimo, in linea
generale, non deve temere la minaccia delle gestioni passive. In effetti, in
generale, il tema dei costi della gestione passiva passa in secondo piano
rispetto a una ristrutturazione complessiva dei risparmi degli italiani,
pessimi investitori con il “fai da te”. I margini derivanti da tale
ristrutturazione sono di un altro ordine di grandezza rispetto al peso della
differenza dei costi delle commissioni di gestione. Un consulente ha molte
frecce e argomenti al suo arco, soprattutto in un periodo di grandi
transizioni.
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