“TRUMPEUFORIA” CONTINUA
Leggendo IlSole-24Ore di oggi non poteva che colpirmi
il neologismo “trumpeuforia”, usato da Walter Riolfi nel suo articolo “Opposte
scommesse sull’eurozona”, e non posso che condividerlo perché nei fatti è vero.
Trump ha indotto un effetto euforico negli
investitori. L’indice S&P 500 nella settimana della sua elezione se ne
stava in trepida attesa in area 2100, dopo un trend negativo che durava da metà
agosto, per raggiungere di botto quota 2164 nella chiusura del venerdì. Da quel
momento, si tratta di 15 settimane, l’indice ha registrato ben 13 chiusure
settimanali in positivo arrivando a quotare 2351 punti alla fine della
settimana scorsa. Si tratta di una crescita del 12%; un buon risultato, non c’è
che dire, ma lo è ancor più se consideriamo che l’elezione di Trump era
considerata unanimemente una jattura e che questa crescita ha visto toccare e
ritoccare con continuità nuovi massimi, come avvenuto nel corso della scorsa
settimana.
Pur fra qualche inciampo e gli abituali
atteggiamenti istrionici, la promessa dell’abbassamento della pressione fiscale
sembra aver ipnotizzato gli operatori che manifestano apertamente la loro approvazione
attraverso le continue scommesse sugli indici azionari Usa. Sta di fatto, come
dice Riolfi, che l’indice di Filadelfia viaggia sugli stessi livelli
dell’epopea reaganiana quando la
crescita era superiore al 7% annuo, un ritmo “cinese” diremmo ora.
Tutto ciò fa certamente piacere a coloro che
hanno puntato in questi anni sulla crescita del mercato azionario, in
particolare quello americano, ma è altrettanto certo che i risultati futuri
potranno arrivare solo se Trump abbasserà realmente la tassazione, che questa
manovra possa innescare uno stimolo all’economia statunitense tanto forte da potersi
estendere a tutto il mondo diffondendo benessere e crescita generalizzata, che
tale crescita si concretizzi in un altrettanto forte incremento dei margini
reddituali.
Ciascuno di noi dovrebbe infatti ora
chiedersi quale livello di crescita ulteriore può definirsi
soddisfacente, ossia quale rapporto rischio/rendimento è da ritenersi equo,
dato che gli attuali livelli dell’indice S&P si trovano del 50% al di sopra
del precedente record del 2007 e che a questi livelli tutti coloro che hanno
investito sui minimi di marzo 2009 hanno
ottenuto una remunerazione complessiva del 210%.
Dei massimi dello S&P abbiamo appena
raccontato ma, come accaduto nelle precedenti occasioni, questo record viaggia
in combine con i massimi storici del Nasdaq e dell’indice Wold Msci. La
settimana scorsa non ha registrato alcun mutamento di sentiment ed infatti ben
tredici indici sui quindici del paniere chiudono in territorio positivo.
Restano fuori dal generale ottimismo solamente le borse di Tokyo (-0,74%) e quella
di Mosca (-1,03%), strettamente correlata all’andamento degli idrocarburi,
fermi da due mesi sui medesimi livelli.
In settimana si distinguono in particolare la
borsa brasiliana (+2,46%), il cui andamento ormai non fa nemmeno più notizia, e
la piazza di Hong Kong, a +1,95%. Su crescite sostanzialmente comprese fra il
mezzo punto ed il punto percentuale si trovano tutte le piazze europee, sulle
quali aleggia da tempo una certa perplessità riconducibile ai destini dell’euro
qualora dalle prossime tornate elettorali emergessero forti velleità
nazionalistiche contrarie all’Unione Europea.
Tanto per rendere l’idea, se prima abbiamo
puntualizzato quanto sia cresciuta la borsa americana, ricordo che,
all’incontrario, l’indice Eurostoxx, per ritornare sui massimi precedenti che
risalgono a marzo 2000 (17 anni fa !!!) dovrebbe crescere del 63% dall’attuale
livello. In queste percentuali possiamo capire le diversità strutturali fra la
neonata comunità europea e la consolidata macchina politica ed amministrativa
americana.
LA SETTIMANA DEI MERCATI OBBLIGAZIONARI
Dopo la fiammata delle due settimane a cavallo
fra gennaio e febbraio sui mercati dei bond governativi è tornata una certa
serenità, il che non sta certo a significare che altre burrasche non
arriveranno.
Gli attuali livelli dei tassi decennali ci
offrono un quadro piuttosto diverso rispetto alle scorse settimane. In Usa
siamo passati da tassi di poco inferiori al 2,50% all’attuale 2,24%, un calo di
oltre l’8% dal primo di gennaio e del 10% dai massimi. In Europa i tassi
britannici si sono sin qui mossi in parallelo con quelli Usa ed ora offrono un
rendimento pari all’1,22% mentre, nonostante un sostanzioso regresso dai
massimi, restano in tensione quelli principali dell’area Euro (Germania,
Francia e Italia).
L’Italia è il paese maggiormente esposto con
tassi a 10 anni stabilmente superiori al 2% da un mese a questa parte e uno
spread sul Bund a 187,20 in chiusura settimanale. La Francia e la Germania da
inizio anno si sono stabilizzate su incrementi del rendimento intorno al 50%
che significa tassi pari all’1,05% e 0,30% rispettivamente.
ANDAMENTO DELLE VALUTE
A un mese si registra un
generale indebolimento dell’Euro su ciascuna delle valute del nostro paniere;
tale indebolimento è mediamente pari all’1% su dollaro, sterlina e yuan, mentre
sfiora il 2,5% sullo yen giapponese. Da inizio anno la relazione fra euro e
dollaro Usa, la più importante, resta comunque favorevole all’Euro nella misura
di un punto percentuale.
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