Dopo otto anni
di crisi, con una lunga serie di manovre di politica economica alle spalle e le
principali banche centrali impegnate a dispiegare i più disparati strumenti a
disposizione, siamo ancora in attesa di una crescita credibile e rassicurante.
Per esserci
crescita è indispensabile una serie di condizioni, quali
una capacità
produttiva adeguata, costi di produzione contenuti, capacità di avvicinare i
mercati di sbocco in modo fluido ed efficace, una domanda aggregata adeguata e
la capacità di spesa dei clienti finali.
Sul lato
dell’offerta indubbiamente i tentativi di dare impulso all’attività economica
mondiale sono stati fatti ma poca attenzione è stata posta sulla capacità di spesa
dei consumatori e su questo versante la politica è rimasta piuttosto inerte.
In questi
ultimi decenni le disuguaglianze, in termini di ricchezza e redditi, si sono
divaricate in modo impressionante e non è un caso che il Senatore Bernie
Sanders stia cavalcando con successo questo tema nella sua campagna elettorale
contro Hillary Clinton; “Lo
0,1 per cento degli americani più ricchi ha tanta ricchezza quanto il 90 per
cento della popolazione. Qualcuno pensa che questo sia giusto? La classe media
americana sta scomparendo. È ora di dire basta! ” è il messaggio che
diffonde nei suoi comizi e l’elettorato sta premiando la sua corsa verso la
Casa Bianca.
Su questo argomento si è espresso Leopoldo
Fabiani nel suo articolo “Troppa disuguaglianza fa male anche ai
ricchi” pubblicato lo scorso marzo sul settimanale “L’Espresso” che
invito a leggere – Link: http://espresso.repubblica.it/visioni/2016/03/10/news/troppa-disuguaglianza-uccide-la-democrazia-1.253547
Nel suo articolo Fabiani cita Joseph Stiglitz che da anni denuncia con libri e articoli
l’insostenibilità della situazione. In “La grande frattura”, appena uscito
da Einaudi, il noto economista scrive: “Il primo uno per cento degli americani
si porta a casa ogni anno quasi un quarto del reddito della nazione. In termini
non di reddito, ma di ricchezza del paese, il primo 1 per cento ne controlla il
40 per cento. Venticinque anni fa i termini di quel rapporto erano 12 e 33 per
cento. Tutta la crescita degli ultimi decenni è andata a chi stava in cima”.
L’autore cita ancora Stiglitz, “Quando
il denaro si concentra molto in alto la domanda aggregata inizia a scendere”,
il che sta a significare che le economie in cui la distribuzione della
ricchezza è fortemente sperequata crescono poco (che è la situazione nella
quale versiamo).
Ciò si contrappone alla teoria che
sostiene un effetto distributivo verso il basso della ricchezza a prescindere
dalla sua concentrazione e dunque ciò rende superfluo un intervento correttivo
di questo fenomeno; il mercato si regola autonomamente, secondo i puristi del
liberismo.
La globalizzazione ha prodotto un enorme
allargamento della schiera dei potenziali consumatori portando la produzione in
paesi sino ad allora sottosviluppati, creando posti di lavoro che hanno
generato flussi di reddito per quelle popolazioni ma al contempo hanno distrutto
posti di lavoro nei paesi sviluppati e ne hanno spinto all’ingiù il costo
creando - in parallelo - una generazione di “working poors” attraverso la
proliferazione di forme contrattuali flessibili e precarie.
I benefici della crescita, lo troviamo
proprio nella sperequata distribuzione dei redditi, sono andati a finire nelle
tasche degli appartenenti alla “upper class”, imprenditori, manager e
professionisti mentre la classe media si è mediamente impoverita e si sono
allargati i ceti più poveri. In queste condizioni è molto duro sviluppare il
consumismo, almeno come l’abbiamo inteso finora.
Questa situazione produce anche effetti
sulla mobilità sociale erigendo barriere ancora più alte che impediscono ai più
di salire ai piani superiori della scala sociale, fenomeno che ha consentito in
passato di fare emergere grandi capacità professionali e impegno lavorativo a
beneficio non solo dei singoli ma anche della società nel suo complesso.
Su questo argomento invito alla lettura
del libro “Manifesto Capitalista. Una rivoluzione liberale contro un’economia
corrotta” di Luigi Zingales che analizza, in un parallelo fra Usa e
Italia, la struttura delle lobbies e il problema della meritocrazia.
La carenza di denaro da spendere per
soddisfare i bisogni personali e familiari, indispensabili o indotti che siano,
resta un robusto freno per lo sviluppo della crescita. Nelle attuali condizioni,
a mio avviso, non restano che due vie. La prima porta a una revisione globale
delle politiche fiscali e a una più equa distribuzione dei redditi mediante la
quale il maggior benessere della classe media può indurre a una maggiore
domanda innescando la tanto auspicata e invocata crescita.
La seconda è quella di prendere tempo,
inducendo la classe media al consumo pressoché integrale dei redditi percepiti
unitamente alla progressiva erosione dei capitali accantonati dalle precedenti
generazioni fino al loro esaurimento. Peccato che alla fine di un simile
processo ci ritroveremmo non solo allo stesso punto ma nella medesima
situazione del XVIII° secolo in cui l’esasperazione delle differenze economiche
e sociali mise in contrapposizione una nutrita moltitudine di poveri e un
numero esiguo di nobili immersi nell’agiatezza e sappiamo tutti come andò a
finire.
Sarebbe un vero peccato tornare a quei
tempi per l’assenza (o noncuranza) della classe politica che, almeno nel
cosiddetto “mondo civile”, dovrebbe avere tra i suoi compiti quello di
garantire sviluppo ed equità.
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