E ORA CON TRUMP SCOPRIAMO IL VAMPIRISMO
ANTIAMERICANO
Trump deve aver mal digerito il rifiuto di
mettere mano all’Obamacare della scorsa settimana ma in qualche modo deve pur
farsi vedere attivo e vitale e, soprattutto, coerente con gli slogan cavalcati
in campagna elettorale gettandosi
ora a testa bassa in una campagna impregnata
di “America first” che intende colpevolizzare il resto del mondo (Europa in
testa) di cospirazione anti-Usa tanto da dissanguarne l’economia.
Sembra incredibile che le aree più votate al
liberismo e al libero scambio debbano entrare in conflitto per l’attuale
incapacità del presidente americano di saper indirizzare l’economia del proprio
paese nella direzione auspicata. E’ stato facile promettere benessere e lavoro
a profusione, ma ci vogliono grandi capacità per coalizzare la maggioranza
delle forze in campo in un progetto condiviso e realizzabile, soprattutto ci
vorrebbe un valido progetto.
Un calcolo l’avrà certamente fatto,
l’istrionico Trump: dall’altra parte della sponda atlantica trova – al momento
– una comunità europea alle prese con la “rogna” Brexit e una potenziale struttura
da “Armata Brancaleone” che potrebbe avvitarsi su sé stessa, rinunciando alla
propria coesione, per difendere a spada tratta chi il proprio formaggio, chi il
proprio vino o la birra nazionale. Purtroppo, troppe volte l’interesse di
parrocchia ha prevalso in Europa sull’interesse comune e magari Trump conta
proprio su questo.
Siamo alle prime schermaglie, tocchiamo ferro e
auguriamoci che tutto ciò finisca in una bolla di sapone e si possa competere
nel rispetto delle regole del gioco, gioco nel quale chi sarà più abile e
competitivo trarrà maggiori benefici rispetto ai competitor più sonnecchianti.
Certo che accusare l’economia europea di aver
messo in crisi la produzione americana mi fa alquanto sorridere. In questi
ultimi vent’anni, frequentando gli Usa, ho imparato - acquistando i prodotti
che fanno bella mostra sugli scaffali dei loro negozi - che al 90% le merci
portano l’etichetta del “Made da qualche parte ma non in Usa” avendo loro
stessi spostato all’estero le loro produzioni, dove ovviamente faceva più
comodo alla proprietà per il minor costo del lavoro e provocando una costante
emorragia di posti di lavoro, proprio quelli che ora Trump vorrebbe ricreare …
SI E’ CHIUSO IL PRIMO TRIMESTRE, E ORA ?
L’elezione di Trump ha pesato non poco
sull’andamento dei listini in questo primo trimestre. Le promesse elettorali
hanno elettrizzato gli operatori che hanno fiutato e scommesso su una forte
crescita dell’economia americana soprattutto in virtù dei tagli alle imposte,
fattore di assoluta rilevanza alla base della promessa rinascita produttiva
degli Stati Uniti.
Questo primo trimestre, pur con qualche lieve
saliscendi, non è stato altro che la prosecuzione del trend in atto dai primi
di novembre: crescita, crescita e ancora crescita. Una crescita talmente fluida
che alcuni listini, in primis quelli americani, sono andati a ritoccare i
propri massimi assoluti e altri sono ad un passo dal farlo a loro volta.
Il primato della crescita da inizio anno spetta
alla borsa di Mumbay, cresciuta dell’11,24%, seguita a breve distanza dal
Nasdaq e da Hong Kong (+9,82% e +9,71% rispettivamente). Ben otto indici si
trovano in un range compreso tra il 5,34% (la Svizzera) e il 7,90% del Brasile.
Sotto il 5% di rialzo l’indice Msci World (che ha ritoccato il suo massimo
storico solo due settimane fa), la borsa cinese (+3,83%) e la Gran Bretagna
(+2,52% e record delle quotazioni raggiunto all’inizio di marzo).
In negativo troviamo solamente due indici,
quello giapponese - a -1,07% - trascinato sotto la parità da inizio anno proprio
la settimana scorsa e la borsa moscovita che chiude il trimestre a -3,35%.
Il rally scaturito dalle promesse c’è stato, ma
ora sappiamo che le promesse dovranno lasciare il posto ai fatti e gli accadimenti
delle ultime due settimane hanno intonazioni un po’ diverse. Trump dovrà
convincere gli oppositori, soprattutto quelli del suo partito, ad appoggiare le
sue iniziative la cui applicazione si dovrebbe tradurre nell’auspicata crescita
dell’economia e, di conseguenza, giustificare gli attuali livelli dei mercati dando
ulteriore propulsione alla salita dei listini.
In caso contrario sarà molto difficile trovare
le risorse necessarie per lo sviluppo promesso, prime fra tutte quelle
destinate alla riduzione dell’attuale imposizione fiscale, pena la chiusura
dell’apparato statale, come avvenne nel 2013 e, in questo caso, il mantenimento
degli attuali livelli delle quotazioni potrebbe divenire difficile, se non
impossibile.
Un piccolo segnale di prudenza viene dal
mercato obbligazionario. Andiamolo a scoprire.
LA
SETTIMANA DEI MERCATI OBBLIGAZIONARI
Nelle prime due settimane di marzo i bond
decennali di Usa, Germania, Francia e Italia hanno toccato i massimi livelli di
rendimento da inizio anno. Gli Usa a 10 anni arrivavano a rendere il 2,58%, il
bund tedesco remunerava gli investitori con uno 0,48%, quelli di Francia e
Italia si attestavano su ritorni dell’1,13% e 2,54% rispettivamente. Nelle
ultime due settimane la domanda di carta è cresciuta e i rendimenti si sono
nuovamente abbassati.
Nonostante le attese di ritocchi ulteriori da
parte della Fed il decennale Usa è ritornato a rendere il 2,40%, addirittura
meno di quanto remunerava a inizio anno – prima dell’aumento della banca
centrale statunitense, il bund è rientrato su rendimenti più contenuti (0,33%)
e qui gioca magari un fattore contingente, quello di costituire un porto sicuro
in prossimità delle elezioni francesi, temute per il “fattore Le Pen”. Anche
Francia e Italia vedono incrementare i rendimenti anche se – per fattori
soprattutto politici – i rendimenti attuali sono più elevati rispetto a inizio
anno del 50 e 30% rispettivamente.
Lo spread fra btp e bund sale in chiusura di
settimana a 197,39 a conferma di una forza relativa maggiore del decennale
tedesco rispetto a quello italiano.
La Gran Bretagna è un caso a sé e con
l’ufficializzazione della Brexit presenta dei margini di incertezza piuttosto
elevati dato che gli investitori dovranno confrontarsi anche con i rapporti di
cambio che nei prossimi mesi vedranno presumibilmente aumentare la già elevata
volatilità della valuta britannica.
EURO IN
FLESSIONE
In settimana l’Euro ha perso forza su tutte le
quattro valute del nostro osservatorio riportandosi a 1,06 sulla moneta Usa, a
7,32 nei confronti dello yuan e a 0,86 sulla sterlina inglese; praticamente
siamo agli stessi livelli di inizio mese.
Maggiore forza relativa invece per lo yen che a
un mese si rafforza del 2,40% sull’euro e da inizio anno porta al 4,24%
l’apprezzamento sulla moneta comunitaria. Se allargassimo la finestra temporale
a tre mesi ci accorgeremmo infatti che l’indebolimento sullo yen è l’unico
fatto concreto mentre restiamo su una sostanziale parità dell’euro sulle altre
valute (dollaro usa, sterlina inglese e yuan).
Tutto tranquillo per ora ma a causa delle
prossime tornate elettorali europee, delle decisioni della Fed e della Bce -
probabilmente divergenti - e le ripercussioni delle politiche di Trump salgono
le probabilità che il mercato valutario si muova rompendo l’attuale staticità
ed è pensabile che la diversificazione valutaria possa assumere un ruolo di
maggiore importanza nei prossimi mesi.
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