Per la prima volta quest’anno chiudono la settimana
in positivo tutti i mercati azionari che stiamo tenendo sotto osservazione, con
il Nikkei in gran spolvero (+ 6,5%) e con
lo S&P a chiudere la fila in crescita del 1,60%,
lo S&P a chiudere la fila in crescita del 1,60%,
Si riducono pertanto le distanze dal punto di
pareggio con solo 4 mercati con perdite a due cifre (Italia, Cina, Giappone e
Svizzera); all’opposto consolidano il trend positivo le borse del Brasile,
Russia e USA.
La settimana scorsa ci eravamo soffermati sulle
persistenti fragilità dei mercati ma, a quanto pare, gli investitori non stanno
avvertendo quegli scricchiolii che hanno drizzato le nostre orecchie.
Viene da chiedersi il perché di questa incongruenza
e, come sempre, i motivi sono molteplici. Mi voglio soffermare solamente su
quello che dovrebbe essere tenuto in debita considerazione dagli investitori
privati, ossia la percezione del rischio e le attese di rendimento.
Credo sia noto che una massa piuttosto elevata di
titoli obbligazionari abbia rendimenti negativi relativamente alle durate
comprese fra 0 e 5 anni. Se spingiamo l’orizzonte temporale di investimento al
di là di questa durata e ci portiamo sui titoli decennali scopriamo che la
situazione è quantomeno poco ripagante:
- Regno Unito 1,41%
- Germania 0,12%
- Francia 0,47%
- Italia 1,33%
- Svizzera -0,40%
- Giappone -0,13%
- Usa 1,75%
Le indagini di mercato ci confermano che
l’investitore medio non accetta questa situazione ma, viziato dai rendimenti
dei decenni precedenti, tende a ricercare rendimenti di maggiore spessore.
Ricordo, a tal proposito, che l’anno scorso due
distinte ricerche attestarono che le attese di rendimento da parte dei risparmiatori
italiani per il 2015 erano del 9%, una percentuale che non ha bisogno di alcun
commento per comprendere la distanza tra le attese e la realtà dei nostri
connazionali.
Nel tentativo di aggrapparsi al desiderio di
conseguire rendimenti più ripaganti, gli
investitori - con alle spalle un lungo periodo di trend positivo dei mercati
azionari (supportati dai vari QE delle maggiori banche centrali, fatto inusuale
ed estemporaneo) – stanno investendo in misura maggiore rispetto al passato nel
mercato azionario, direttamente o per vie indirette.
Mentre l’investimento diretto comporta un’assunzione
consapevole del rischio incorporato, quello che non è ancora percepito è che i
prodotti massicciamente inseriti negli ultimi tre/quattro anni nei portafogli (fondi
multi-asset e flessibili) hanno dei contenuti azionari spesse volte ignorati ai
quali si associano anche titoli obbligazionari di aziende o stati che la maggioranza
degli investitori non si sognerebbe di acquistare consapevolmente.
Tutto ciò si scontra con la convinzione che i rischi
di tali prodotti siano pari, se non addirittura inferiori, a quelli dei titoli
obbligazionari e che la delega assunta dai gestori dia la garanzia (leggasi
certezza) che sapranno affrontare con assoluta abilità le difficoltà dei
mercati.
Va chiarito che la ricerca di rendimenti più
ripaganti comporta inevitabilmente l’assunzione di rischi ben più elevati e che
l’abilità dei gestori, da aprile dell’anno scorso, è stata messa a dura prova e
sino ad ora sono più evidenti i malumori che le soddisfazioni tra gli
investitori.
Il rischio dunque è che, a fronte di eventi molto
negativi, il ritorno alla realtà possa essere piuttosto drammatico e ancor di
più lo potrebbero essere i comportamenti emotivi che ne possono derivare. Ciò è
insito nella natura umana e ogni esperto di finanza conosce perfettamente quali
danni possono scaturire dal panico di investitori delusi.
Ogni grande crisi l’ha ben evidenziato e la prossima
potrebbe non solo replicarlo ma addirittura enfatizzarlo.
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