Frequentando
le università statunitensi, noto che si fa un gran parlare della gestione dei
fondi di dotazione (endowment) delle principali università, le più ricche. Il
“gruzzolo” più cospicuo è quello di Harvard, che ammonta a 37,6 miliardi di
dollari statunitensi.
E tuttavia non è quello
gestito meglio.
Se si considerano i rendimenti degli ultimi cinque anni, dal 2010 fino al 30 giugno 2015, resi pubblici adesso, un anno dopo, si scopre che il rendimento medio della ricca dotazione di Harvard supera di poco il 10%, mentre quello di Yale raggiunge il 14%. Gli studenti, gli ex-studenti (alumni), i professori, e, più in generale, l’opinione pubblica colta statunitense sono tutti fieri e orgogliosi del fatto che Harvard ha in ogni campo i migliori cervelli del mondo. E allora come mai non riesce con il suo “endowment” a fare meglio degli altri, a essere almeno all’altezza di Yale e Princeton? Solo Cornell, tra le grandi università “storiche” ha fatto peggio di Harvard, con un rendimento medio di poco inferiore al 10%. Il fatto è che i numerosi responsabili e gestori succedutisi negli ultimi anni – come nel caso degli allenatori di calcio, i gestori si cambiano subito quando le cose non vanno bene – hanno cercato di fare una gestione dinamica come quella degli hedge funds. E sono tempi grami e ardui per chi cerca di muoversi in questo modo, come abbiamo già detto e illustrato più volte, e come mostriamo di nuovo alla fine di questa lezione.
Se si considerano i rendimenti degli ultimi cinque anni, dal 2010 fino al 30 giugno 2015, resi pubblici adesso, un anno dopo, si scopre che il rendimento medio della ricca dotazione di Harvard supera di poco il 10%, mentre quello di Yale raggiunge il 14%. Gli studenti, gli ex-studenti (alumni), i professori, e, più in generale, l’opinione pubblica colta statunitense sono tutti fieri e orgogliosi del fatto che Harvard ha in ogni campo i migliori cervelli del mondo. E allora come mai non riesce con il suo “endowment” a fare meglio degli altri, a essere almeno all’altezza di Yale e Princeton? Solo Cornell, tra le grandi università “storiche” ha fatto peggio di Harvard, con un rendimento medio di poco inferiore al 10%. Il fatto è che i numerosi responsabili e gestori succedutisi negli ultimi anni – come nel caso degli allenatori di calcio, i gestori si cambiano subito quando le cose non vanno bene – hanno cercato di fare una gestione dinamica come quella degli hedge funds. E sono tempi grami e ardui per chi cerca di muoversi in questo modo, come abbiamo già detto e illustrato più volte, e come mostriamo di nuovo alla fine di questa lezione.
La morale è che una
differenza del 5% annuo tra i migliori e i peggiori – pur costituendo alla fine
del quinquennio 2010-2015 una bella differenza - non è poi così scandalosa. Chi
è affezionato all’università di Harvard soffre, ma non è saggio né accorto
stupirsi del fatto che il maggior concentrato mondiale di menti brillanti non
riesca a scegliere dei gestori che superino la concorrenza, così come riesce a
fare Harvard nello scegliere i professori, nel contesto della forte concorrenza
tra chi accede e frequenta i mercati delle scienze e delle arti.
Tabella che mostra i rendimenti percentuali, da giugno
2010 a giugno 2015, dei patrimoni delle università “storiche” statunitensi,
chiamate Ivy League. Harvard, la più ricca e la più brava ad arruolare i
professori, non riesce a scegliere i migliori gestori. Fonte: Bloomberg
modificata.
La risposta è semplice e
difficile insieme: non è un problema d’intelligenza né di impreparazione. E’
più facile arruolare i buoni professori che scegliere i buoni gestori. Nel caso
dei gestori, a differenza dei professori, non sono sufficienti le prestazioni
del passato come metro di giudizio. Sono altri i meccanismi psicologici che
entrano in gioco. Altrimenti, ragionando in questo modo, gli italiani, nel loro
complesso, dovrebbero sentirsi profondamente stupidi, abissalmente ottusi. Il
loro patrimonio globale è di circa 8mila miliardi di dollari. Siccome tale
patrimonio include, nel complesso, una forte componente immobiliare (a differenza
di Harvard), non si può stimarne con analoga esattezza il valor complessivo.
Supponiamo però (ottimisticamente) che siano 8mila miliardi, cioè circa poco
più di 200 volte il fondo di dotazione di Harvard. Per chi è curioso ecco i
dati delle università più “dotate”
Il rendimento del “fondo di
dotazione” degli italiani, in media e nel suo complesso, non ha superato di
certo il 2% all’anno, cioè meno di un quinto di quello dell’università di Yale
(tra l’altro anche l’euro si è indebolito rispetto al dollaro). Come è
possibile? Troppo semplice dire che quelli sono esperti e gli italiani sono a
zero nel campo dell’educazione finanziaria. Questo è un fallimento molto più
generale e, in sintesi, corrisponde al non rendersi conto delle conseguenze di
determinati atteggiamenti e modi di ragionare diffusi, purtroppo, nel nostro
paese. Sono quelli puntualmente rilevati nella ricerca annuale sul risparmio
del Centro Einaudi di cui si è parlato nella lezione precedente. Ma il centro
Einaudi rileva i comportamenti e gli atteggiamenti, ma non le cause profonde di
questi atteggiamenti superficiali. Siccome poi sappiamo, sempre purtroppo, che
sta scendendo da tempo anche il tasso di risparmio degli italiani (mentre le
dotazioni continuano ad affluire ad Harvard copiose), oggi affrontare le
tematiche della costruzione e, soprattutto, della manutenzione dell’edificio
del risparmiatore, e non solo il piano alto della ricchezza finanziaria, è
urgente. Urgente se si pensa che gli italiani, nel complesso, tengono ben 1.300
miliardi di risparmi congelati sui conti correnti e altrettanti in reddito
fisso a breve termine. Viceversa, meno del 4% dei risparmi è investito in
azioni e solo il 6% dei risparmiatori italiani detiene azioni in portafoglio
(prevalentemente si tratta di singole azioni italiane, e quindi la
diversificazione è andata a farsi benedire).
Perché così tanti soldi
sono tenuti liquidi o semi-liquidi? Non è solo per paura delle discese dei
mercati. Molti risparmiatori si rendono ben conto che la discesa più che
ventennale dei tassi è ormai quasi giunta al termine, e che investire senza
rischi a breve-medio termine non rende proprio nulla. Ai bei tempi, con i BOT
al 18% e l’inflazione di pari valore, il rendimento reale era nullo, come oggi,
ma quello nominale era generoso, ed è lì che i più concentravano l’attenzione.
Oggi, in condizioni di quasi assenza d’inflazione, tutti si accorgono che il
rendimento è nullo, e non solo in Italia. E allora come mai gli italiani
tengono più della metà dei risparmi non immobiliari in queste forme?
Tutte le ricerche recenti,
non solo quella del Centro Einaudi appena pubblicata, mostrano che la
motivazione principale al risparmio, congelato in queste forme super-sicure, è
proprio la prudenza, o meglio il “non si sa mai”. E di che cosa “non si sa
mai”? Non si sa se capita un guaio inatteso, dai meno gravi ai più gravi.
Quella oggettivamente più pericolosa è una qualsiasi criticità che colpisca il
nostro “capitale umano”, cioè le capacità che servono a produrre quel reddito
da cui ricaviamo i risparmi. Insomma, si cerca sicurezza. Eppure l’Italia è il
paese più sotto-assicurato tra i paesi industriali. E lo è perché ci si
assicura indirettamente con il risparmio a breve termine, congelato per il “non
si sa mai”. Ma le forme del “non si sa mai” oggi sono diventate troppo
inefficienti.
In conclusione, il primo
passo della nuova consulenza consiste nel tradurre il “non si sa mai” in forme
assicurative e previdenziali, eliminando così le principali fonti di
incertezza.
Il secondo passo è
riequilibrare gradualmente il patrimonio complessivo e, ovviamente quello dei
singoli, se questo è troppo imbottito di beni immobiliari che rendono poco o
che hanno già perso di valore. Lo stesso eccesso di case si è cumulato non
tanto per la necessità di avere un servizio abitativo. In questo istante in cui
leggete più di metà dei vani italiani è disabitato e, nell’altra metà, non
stiamo producendo molti bimbi per riempirli in futuro. Le case sono state
acquistate anche per la sicurezza economica dei figli che, nel complesso, si
troveranno in mano un patrimonio immobiliare eccessivo se inteso come servizio
abitativo, poco assicurato, e che si svaluta ormai da molti anni. Per la
precisione, secondo i dati Nomisma, il prezzo medio delle abitazioni nelle
tredici principali città italiane, in valori reali, è sceso dal 2007 a metà del
2016 di circa il 30%. I dati mostrano inoltre che ci si è rassegnati a questa
discesa nel senso che i mutui sono più che raddoppiati dal 2013 al 2015 e sono
quasi tornati al livello del 2006. Si tratta per lo più di prime case anche
perché nel frattempo, cioè dal 2009, le imposte sono salite del 172% (molte
però sono semplici “sostituzioni” dovute al calo dei tassi; per un’analisi
dettagliata cfr. Il Sole24Ore, giovedì 14 luglio 2016, sezione “Immobili”).
Se quindi la “nuova
consulenza” prenderà in considerazioni tutti e quattro i modi con cui si può
rispondere alla domanda “quanto vale una persona”, emergeranno molti aspetti
della consulenza di cui il risparmiatore tradizionale non sospetta l’esistenza,
prima ancora della “necessità”. In occasione del “costo della consulenza” reso
esplicito secondo i dettami della Mifid 2, tra due o tre anni, una consulenza a
tutto campo riuscirà a riequilibrare la tendenza inevitabile a ridurre i costi
della parte dedicata dalla “ricchezza finanziaria”, che, nella concezione
tradizionale della consulenza, era l’unica richiesta da parte del cliente. Nel
prossimo futuro non basterà una pianificazione successoria e fiscale a lungo
termine, né sarà sufficiente l’ausilio della finanza comportamentale. E’
indispensabile riflettere sui temi dell’assicurazione comportamentale, cioè
sugli ostacoli che impediscono di cogliere le opportunità e di rispondere in
modo esauriente e completo alla domanda “quanto vale una persona?”.
Per ora mi limito a
riportare due grafici che comprovano quanto detto finora e evidenziano come lo
stato di cose di cui si è parlato in questa lezione deve spronare “la nuova
consulenza”. Essa ricentrerà il ruolo del consulente da “esperto dei soli asset
finanziari” (concezione riduttiva della consulenza, visto anche come sia
difficile battere sistematicamente gli indici) a “esperto del valore della
persona”.
Le procedure per questo
cambiamento urgente sono illustrate nel nostro Economia della mente, tra
dieci giorni in libreria.
Per adesso ecco il grafico
sulla difficoltà generale degli hedge nel fare meglio della media del mercato,
difficoltà che è collegata al discorso iniziale.
I migliori esperti, liberi di poter agire con tutti
gli strumenti finanziari, non riescono più dal 2012 a battere sistematicamente
lo S&P500, l’indice di riferimento. Fonte: Bloomberg modificata.
Il nuovo tipo di consulenza
“a tutto campo” è reso ancora più attuale da due fatti concomitati. Si tratta
dell’incertezza che rende i mercati sempre più “sorprendenti”. E, in parallelo,
della conseguente e già citata difficoltà degli “esperti” di fare meglio degli
indici (un punto documentato a fondo in Paolo Legrenzi, Armando Massarenti L’economia
nella mente, Raffaello Cortina editore, settembre 2016).
L’incertezza
si traduce in “sorprese”, cioè in qualcosa che in passato non era stato
previsto. L’indice delle soprese ha valori molto alti. Mercati sorprendenti
sono anche imprevedibili (cfr. grafico precedente). Fonte: Bloomberg
modificata.
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