martedì 13 settembre 2016

Laboratorio Swiss & Global - Lezione N. 189 – Ruolo cruciale della consulenza, oggi, e educazione finanziaria



Frequentando le università statunitensi, noto che si fa un gran parlare della gestione dei fondi di dotazione (endowment) delle principali università, le più ricche. Il “gruzzolo” più cospicuo è quello di Harvard, che ammonta a 37,6 miliardi di dollari statunitensi.
E tuttavia non è quello gestito meglio.
Se si considerano i rendimenti degli ultimi cinque anni, dal 2010 fino al 30 giugno 2015, resi pubblici adesso, un anno dopo, si scopre che il rendimento medio della ricca dotazione di Harvard supera di poco il 10%, mentre quello di Yale raggiunge il 14%. Gli studenti, gli ex-studenti (alumni), i professori, e, più in generale, l’opinione pubblica colta statunitense sono tutti fieri e orgogliosi del fatto che Harvard ha in ogni campo i migliori cervelli del mondo. E allora come mai non riesce con il suo “endowment” a fare meglio degli altri, a essere almeno all’altezza di Yale e Princeton? Solo Cornell, tra le grandi università “storiche” ha fatto peggio di Harvard, con un rendimento medio di poco inferiore al 10%. Il fatto è che i numerosi responsabili e gestori succedutisi negli ultimi anni – come nel caso degli allenatori di calcio, i gestori si cambiano subito quando le cose non vanno bene – hanno cercato di fare una gestione dinamica come quella degli hedge funds. E sono tempi grami e ardui per chi cerca di muoversi in questo modo, come abbiamo già detto e illustrato più volte, e come mostriamo di nuovo alla fine di questa lezione.

La morale è che una differenza del 5% annuo tra i migliori e i peggiori – pur costituendo alla fine del quinquennio 2010-2015 una bella differenza - non è poi così scandalosa. Chi è affezionato all’università di Harvard soffre, ma non è saggio né accorto stupirsi del fatto che il maggior concentrato mondiale di menti brillanti non riesca a scegliere dei gestori che superino la concorrenza, così come riesce a fare Harvard nello scegliere i professori, nel contesto della forte concorrenza tra chi accede e frequenta i mercati delle scienze e delle arti.


Tabella che mostra i rendimenti percentuali, da giugno 2010 a giugno 2015, dei patrimoni delle università “storiche” statunitensi, chiamate Ivy League. Harvard, la più ricca e la più brava ad arruolare i professori, non riesce a scegliere i migliori gestori. Fonte: Bloomberg modificata.
La risposta è semplice e difficile insieme: non è un problema d’intelligenza né di impreparazione. E’ più facile arruolare i buoni professori che scegliere i buoni gestori. Nel caso dei gestori, a differenza dei professori, non sono sufficienti le prestazioni del passato come metro di giudizio. Sono altri i meccanismi psicologici che entrano in gioco. Altrimenti, ragionando in questo modo, gli italiani, nel loro complesso, dovrebbero sentirsi profondamente stupidi, abissalmente ottusi. Il loro patrimonio globale è di circa 8mila miliardi di dollari. Siccome tale patrimonio include, nel complesso, una forte componente immobiliare (a differenza di Harvard), non si può stimarne con analoga esattezza il valor complessivo. Supponiamo però (ottimisticamente) che siano 8mila miliardi, cioè circa poco più di 200 volte il fondo di dotazione di Harvard. Per chi è curioso ecco i dati delle università più “dotate” 
Il rendimento del “fondo di dotazione” degli italiani, in media e nel suo complesso, non ha superato di certo il 2% all’anno, cioè meno di un quinto di quello dell’università di Yale (tra l’altro anche l’euro si è indebolito rispetto al dollaro). Come è possibile? Troppo semplice dire che quelli sono esperti e gli italiani sono a zero nel campo dell’educazione finanziaria. Questo è un fallimento molto più generale e, in sintesi, corrisponde al non rendersi conto delle conseguenze di determinati atteggiamenti e modi di ragionare diffusi, purtroppo, nel nostro paese. Sono quelli puntualmente rilevati nella ricerca annuale sul risparmio del Centro Einaudi di cui si è parlato nella lezione precedente. Ma il centro Einaudi rileva i comportamenti e gli atteggiamenti, ma non le cause profonde di questi atteggiamenti superficiali. Siccome poi sappiamo, sempre purtroppo, che sta scendendo da tempo anche il tasso di risparmio degli italiani (mentre le dotazioni continuano ad affluire ad Harvard copiose), oggi affrontare le tematiche della costruzione e, soprattutto, della manutenzione dell’edificio del risparmiatore, e non solo il piano alto della ricchezza finanziaria, è urgente. Urgente se si pensa che gli italiani, nel complesso, tengono ben 1.300 miliardi di risparmi congelati sui conti correnti e altrettanti in reddito fisso a breve termine. Viceversa, meno del 4% dei risparmi è investito in azioni e solo il 6% dei risparmiatori italiani detiene azioni in portafoglio (prevalentemente si tratta di singole azioni italiane, e quindi la diversificazione è andata a farsi benedire).
Perché così tanti soldi sono tenuti liquidi o semi-liquidi? Non è solo per paura delle discese dei mercati. Molti risparmiatori si rendono ben conto che la discesa più che ventennale dei tassi è ormai quasi giunta al termine, e che investire senza rischi a breve-medio termine non rende proprio nulla. Ai bei tempi, con i BOT al 18% e l’inflazione di pari valore, il rendimento reale era nullo, come oggi, ma quello nominale era generoso, ed è lì che i più concentravano l’attenzione. Oggi, in condizioni di quasi assenza d’inflazione, tutti si accorgono che il rendimento è nullo, e non solo in Italia. E allora come mai gli italiani tengono più della metà dei risparmi non immobiliari in queste forme?
Tutte le ricerche recenti, non solo quella del Centro Einaudi appena pubblicata, mostrano che la motivazione principale al risparmio, congelato in queste forme super-sicure, è proprio la prudenza, o meglio il “non si sa mai”. E di che cosa “non si sa mai”? Non si sa se capita un guaio inatteso, dai meno gravi ai più gravi. Quella oggettivamente più pericolosa è una qualsiasi criticità che colpisca il nostro “capitale umano”, cioè le capacità che servono a produrre quel reddito da cui ricaviamo i risparmi. Insomma, si cerca sicurezza. Eppure l’Italia è il paese più sotto-assicurato tra i paesi industriali. E lo è perché ci si assicura indirettamente con il risparmio a breve termine, congelato per il “non si sa mai”. Ma le forme del “non si sa mai” oggi sono diventate troppo inefficienti.
In conclusione, il primo passo della nuova consulenza consiste nel tradurre il “non si sa mai” in forme assicurative e previdenziali, eliminando così le principali fonti di incertezza.
Il secondo passo è riequilibrare gradualmente il patrimonio complessivo e, ovviamente quello dei singoli, se questo è troppo imbottito di beni immobiliari che rendono poco o che hanno già perso di valore. Lo stesso eccesso di case si è cumulato non tanto per la necessità di avere un servizio abitativo. In questo istante in cui leggete più di metà dei vani italiani è disabitato e, nell’altra metà, non stiamo producendo molti bimbi per riempirli in futuro. Le case sono state acquistate anche per la sicurezza economica dei figli che, nel complesso, si troveranno in mano un patrimonio immobiliare eccessivo se inteso come servizio abitativo, poco assicurato, e che si svaluta ormai da molti anni. Per la precisione, secondo i dati Nomisma, il prezzo medio delle abitazioni nelle tredici principali città italiane, in valori reali, è sceso dal 2007 a metà del 2016 di circa il 30%. I dati mostrano inoltre che ci si è rassegnati a questa discesa nel senso che i mutui sono più che raddoppiati dal 2013 al 2015 e sono quasi tornati al livello del 2006. Si tratta per lo più di prime case anche perché nel frattempo, cioè dal 2009, le imposte sono salite del 172% (molte però sono semplici “sostituzioni” dovute al calo dei tassi; per un’analisi dettagliata cfr. Il Sole24Ore, giovedì 14 luglio 2016, sezione “Immobili”).
Se quindi la “nuova consulenza” prenderà in considerazioni tutti e quattro i modi con cui si può rispondere alla domanda “quanto vale una persona”, emergeranno molti aspetti della consulenza di cui il risparmiatore tradizionale non sospetta l’esistenza, prima ancora della “necessità”. In occasione del “costo della consulenza” reso esplicito secondo i dettami della Mifid 2, tra due o tre anni, una consulenza a tutto campo riuscirà a riequilibrare la tendenza inevitabile a ridurre i costi della parte dedicata dalla “ricchezza finanziaria”, che, nella concezione tradizionale della consulenza, era l’unica richiesta da parte del cliente. Nel prossimo futuro non basterà una pianificazione successoria e fiscale a lungo termine, né sarà sufficiente l’ausilio della finanza comportamentale. E’ indispensabile riflettere sui temi dell’assicurazione comportamentale, cioè sugli ostacoli che impediscono di cogliere le opportunità e di rispondere in modo esauriente e completo alla domanda “quanto vale una persona?”. 
Per ora mi limito a riportare due grafici che comprovano quanto detto finora e evidenziano come lo stato di cose di cui si è parlato in questa lezione deve spronare “la nuova consulenza”. Essa ricentrerà il ruolo del consulente da “esperto dei soli asset finanziari” (concezione riduttiva della consulenza, visto anche come sia difficile battere sistematicamente gli indici) a “esperto del valore della persona”.
Le procedure per questo cambiamento urgente sono illustrate nel nostro Economia della mente, tra dieci giorni in libreria.
Per adesso ecco il grafico sulla difficoltà generale degli hedge nel fare meglio della media del mercato, difficoltà che è collegata al discorso iniziale.


I migliori esperti, liberi di poter agire con tutti gli strumenti finanziari, non riescono più dal 2012 a battere sistematicamente lo S&P500, l’indice di riferimento. Fonte: Bloomberg modificata.
Il nuovo tipo di consulenza “a tutto campo” è reso ancora più attuale da due fatti concomitati. Si tratta dell’incertezza che rende i mercati sempre più “sorprendenti”. E, in parallelo, della conseguente e già citata difficoltà degli “esperti” di fare meglio degli indici (un punto documentato a fondo in Paolo Legrenzi, Armando Massarenti L’economia nella mente, Raffaello Cortina editore, settembre 2016).


L’incertezza si traduce in “sorprese”, cioè in qualcosa che in passato non era stato previsto. L’indice delle soprese ha valori molto alti. Mercati sorprendenti sono anche imprevedibili (cfr. grafico precedente). Fonte: Bloomberg modificata.


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