mercoledì 30 gennaio 2013

Laboratorio Swiss & Global - Lezione N. 20 – I tempi lunghi: auto-inganni e utilità dei consulenti

L’asimmetria tra perdite e guadagni, in termini di dolore e piacere, risale alle origini più remote della storia della nostra specie, a milioni di anni fa. Ed è stata un’asimmetria che si è rivelata adattiva e salutare per centinaia di  migliaia di anni, quando vivevamo in ambienti ostili, dove le perdite spesso coincidevano con la fine della vita (Cfr. Eibl-Eibesfeldt, The biology of peace and war, Viking, 1979). Oggi, però, la conseguente fortissima avversione alle perdite, e il dolore a loro associato, rendono quasi impossibile restare indifferenti ai crolli delle quotazioni azionarie. Da un punto di vista psicologico le perdite hanno all’incirca un effetto negativo di valore soggettivo doppio rispetto all’effetto positivo di guadagni della stessa entità.


Dato che le obbligazioni oscillano meno delle azioni, se noi controlliamo spesso il valore del nostro portafoglio, le perdite delle azioni ci preoccupano di più rispetto all’apparente stabilità delle obbligazioni. Quanto più spesso controlliamo il portafoglio, tanto meno ci accorgiamo dei vantaggi generati dal premio al rischio calcolato sui tempi lunghi e registrato in Fig.4.

Benartzi e Thaler (1995) hanno stimato che controllare l’andamento del proprio portafoglio con una frequenza inferiore a un anno (e tutti lo fanno, la maggioranza delle persone lo fa ogni mese, se non ogni settimana) spiega il punto d’indifferenza percepita tra azioni e obbligazioni (cfr. le due figure sottostanti). Il termine da loro coniato è “myopic loss aversion”: se cioè una persona guarda troppo da vicino (myopic), cioè troppo spesso, le perdite temporanee del portafoglio aumentano di salienza e si cerca di evitarle (loss aversion). Sarebbe meglio essere presbiti, e riuscire a vedere solo da lontano, cioè sui tempi lunghi.

Le due figure qui sotto riportate indicano come si possa stabilire il punto di pareggio “emotivo” tra il dolore delle perdite, associato a un esame sempre più frequente di un portafoglio azionario, che rende più probabile la constatazione di discese temporanee (le lunghezze degli intervalli di controllo sono indicate sull’asse orizzontale dei due schemi sotto riportati), e la riduzione di tale dolore in un portafoglio obbligazionario (il livello dell’utilità soggettiva è indicato sull’asse verticale). Se l’esame è fatto con intervalli superiori a una certa durata, la superiorità del primo sul secondo emerge in modo lampante, soprattutto se riusciamo a concentrarci sui rendimenti reali e non su quelli nominali (cosa peraltro difficile, come si è detto).

Un’altra differenza psicologica sostanziale è attribuibile al fatto che, anche quando i titoli di stato scendono di valore – com’è successo spesso in Italia negli ultimi anni avendo i mercati paura dell’elevato debito pubblico – ci si può sempre consolare sapendo che a scadenza ci verrà reso il 100% del loro valore nominale. C’è cioè un traguardo certo nel futuro, ed è la data in cui sarà restituito il capitale iniziale. Tale meta rassicurante ridurrà o annullerà il costo emotivo di eventuali perdite temporanee del valore delle obbligazioni, o dei titoli di stato (a patto, beninteso, che l’ente emittente o l’Italia non vadano a gambe all’aria). Questa percezione spiega come mai i consulenti facciano talvolta acquistare titoli di stato con scadenze diverse, una dopo l’altra, in modo da cancellare, ogni volta, eventuali perdite precedenti (valori delle obbligazioni inferiori alla parità), e rassicurare così il cliente sul futuro. Il valore certo a una scadenza prestabilita è un grande vantaggio “psicologico” dei titoli di stato sulle azioni.

Tale vantaggio contribuisce a spiegare l’entità del premio al rischio di Fig. 4 (per un esame approfondito di tali meccanismi rimando a Hersch Shefrin, Beyond Greed and Fear, Oxford University Press, 2002, pp. 145-148).

Le due figure sottostanti indicano i punti di pareggio soggettivo tra la soddisfazione generata dagli andamenti di due portafogli, uno di azioni e uno di obbligazioni (la prima tiene conto dei rendimenti nominali, e corrisponde a quello che fanno i più, la seconda dei rendimenti reali, il criterio oggettivo che permette confronti intertemporali). Secondo Benartzi e Thaler (1995, The Quarterly Journal of Economics, vol. 110, pp. 73-92), tale punto è definito dalla lunghezza dell’intervallo temporale con cui noi controlliamo il valore del portafoglio, che oscilla di più nel caso delle azioni che non in quello delle obbligazioni. Se lo controlliamo raramente, cioè meno spesso di un anno (cfr. asse orizzontale), emerge la superiorità oggettiva delle azioni (e non occorre aspettare le medie risultanti dai 110 anni delle figure precedenti !!).


Ecco perché solo confronti come quelli della Fig. 4, pubblicata nella lezione n° 18, sono oggettivamente cruciali per un risparmiatore, in dubbio se investire nelle obbligazioni o nelle azioni che lui conosce, quelle cioè italiane (gli investitori tendono a investire in titoli che conoscono, tendenzialmente quelli del loro paese, perché la nozione di diversificazione è contro-intuitiva, come vedremo meglio più avanti).

Per quanto tali dati siano obiettivi, almeno per quanto concerne il passato, e cruciali, essi non guidano sempre le scelte di un risparmiatore, soprattutto se non ha un esperto che gli spiega questi meccanismi. Anche se il periodo per accertarsi della superiorità delle azioni sulle obbligazioni si è allungato nel corso di questo secolo, per ora sfortunato per le azioni, il fenomeno sui tempi lunghi resta immutato. Ovviamente non sappiamo quale sarà l’entità futura del premio al rischio medio dei prossimi 110 anni. Lo sapremo solo nel 2123. Come abbiamo già detto nella lezione 17, esso potrebbe teoricamente – sulla base del passato- oscillare dal 3% al 10%. Ma è assai improbabile che il premio al rischio scomparirà! Non scomparirà mai, perché la mente umana non perderà una caratteristica così essenziale come l’avversione alle perdite, che ci accompagna da centinaia di migliaia di anni. Beninteso, eccetto che nel caso della gestione dei nostri risparmi, è un atteggiamento sano e prudente, da non sconsigliare, visto che, in ogni modo, siamo fatti così. Ecco il motivo per cui è bene avere un consulente, e non fare di testa propria, a meno di non essere veramente esperti ed emotivamente “freddi”, anche quando abbiamo a che fare con i nostri soldi. La mente funziona in modo tale da ingannarci sistematicamente, e noi purtroppo non ce ne accorgiamo. Chi è immune da tali auto-inganni?


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