martedì 15 gennaio 2013

Laboratorio Swiss & Global - Lezione N. 18 – L’entità del premio al rischio e la scelta tra azioni e obbligazioni


Quando, nel 1985, Mehra e Prescott scrivono il loro classico lavoro sull’entità del premio al rischio si domandano, alla luce dei dati del dopoguerra, come mai questo valore sia così alto. Le persone hanno così tanta paura e così poca fiducia nei mercati azionari, al punto da voler essere compensate in misura rilevante della paura di maggiori oscillazioni impreviste, soprattutto se si tratta di discese? Grazie a Kahneman, sappiamo che solo un’emozione forte come il dolore, collegata a discese rapide dei mercati, può spiegare l’entità eccessiva, e quindi teoricamente irrazionale, del premio al rischio.

Secondo i calcoli di Mehra e Prescott, basati sulla durata media degli investimenti, le persone avrebbero dovuto avere molta meno paura e fidarsi di più delle azioni per collocare i loro risparmi (cfr. Legrenzi, 2009, p. 64 e segg.). Di qui la credenza, assai diffusa tra i risparmiatori anglosassoni della passata generazione, che nessun investimento – sui tempi lunghi – riesca a battere le azioni.

Oggi convinzioni di tal fatta sono meno popolari tra la nuova generazione: nel trentennio che finisce nel 2012, le azioni statunitensi hanno battuto le obbligazioni governative solo di poco più dell’1%. Se poi si considera il nuovo secolo, e cioè gli scorsi 12 anni, le azioni hanno reso il 7,6% in meno delle obbligazioni. E questo non è avvenuto solo negli Stati Uniti, ma in tutto il mondo (la differenza negativa è del 6% in Europa e di poco più del 6% nel mondo).

Secondo Buttonwood, sull’Economist del 1-7 dicembre 2012, i due mercati “orso” del nuovo secolo hanno fatto traballare la convinzione nella presunta superiorità delle azioni anche per intervalli di una certa lunghezza, quali sono quelli che interessano i fondi pensione, una vecchia e consolidata tradizione britannica. Dallo schema qui sotto riportato, si vede come si sia tornati indietro di mezzo secolo nella proporzione di azioni e obbligazioni detenute dai fondi pensione britannici.


Fu George Ross Goobey, il responsabile del fondo pensione dell’Imperial Tobacco,  sostenere per primo, negli anni cinquanta, che le azioni erano l’allocazione più adatta per un fondo pensione. In effetti i fondi pensione erano interessati ai tempi lunghi, e non erano quindi influenzati dai cambiamenti a breve termine dei listini azionari. Con un orizzonte temporale lungo si poteva trarre vantaggio proprio dall’entità del premio a rischio, studiata da Mehra e Prescott e descritta nella figura 4 sotto riportata.

Gli esperti dei fondi pensione britannici si accorsero tuttavia che le azioni stavano diventando molto care e cominciarono a ridurne il peso fin dagli anni novanta, dopo che avevano raggiunto la proporzione dell’81% dei loro portafogli nel 1993. Le vicende dell’ultimo eccezionale dodicennio hanno fatto il resto e oggi i fondi pensione hanno il 43,2% in obbligazioni e il 38,5% in azioni: il sorpasso è tornato dopo quasi sessant’anni (cfr. schema). E’ interessante ricordare come gli esperti dei mercati abbiano anticipato il largo pubblico che ha continuato ad avere sempre fiducia, fino allo scoppio della mega-bolla all’inizio del nuovo secolo.

Nessun commento:

Posta un commento