sabato 6 ottobre 2012

DAL CONGRESSO DI MORGAN STANLEY

Andrew Harmstone (Gestore) e Gianluca Maione (Vice Predident) di Morgan Stanley


Nei giorni scorsi ho partecipato al roadshow di  Morgan Stanley che ha offerto spunti piuttosto interessanti. L’incontro si è aperto con un video di Domenico Siniscalco, già ministro della Repubblica, che ha sottolineato le attuali difficoltà per la crescita e lo sviluppo, in particolare modo per le economie occidentali.
Il noto economista ha ripercorso le tappe che hanno portato all’attuale piano di contenimento e salvataggio elaborato da Mario Draghi che ha in parte rasserenato i mercati ed è alla base del mini rally di quest’ultimo periodo.
Un altro punto che è stato toccato ha riguardato il ciclo di deleveraging che è ancora incompleto negli Usa, in Europa e in Giappone.
La sua visione è quella di un mondo che sta sancendo la fine del “superciclo del debito” e di conseguenza ci dovremo attendere una modifica strutturale delle fasi espansive, molto più brevi rispetto al passato; nei paesi emergenti le condizioni sono genericamente migliori ma non in grado di alimentare un’espansione economica tale da supplire alle carenze che gravano sulle economie occidentali.
Infine, affinché la ripresa possa in qualche modo giungere ed espandersi, si dovrà mantenere l’attuale compressione dei tassi. Ci attende dunque un mondo a bassi rendimenti il che, per i risparmiatori, non è certo una bella notizia e meno ancora lo è per coloro (soprattutto per l’intera categoria dei pensionati) che traggono sostentamento anche dai frutti del capitale.
La parola passa successivamente a una nota conoscenza, Andrew Harmstone, che sottolinea quanto utili siano stati gli interventi di Draghi e quest’aura di ritrovata (seppur parziale, dato che moltissimi rimangono i problemi sul tappeto) tranquillità potrebbe stimolare una maggiore attenzione verso i mercati azionari europei.
Negli Usa la crescita è rallentata dallo scoglio fiscale ma il nuovo piano di stimolo sembrerebbe destinato a dare ulteriore impulso alla crescita che, dopo il buon avvio di inizio anno, ha subito un palese rallentamento.
Condizione necessaria ma non sufficiente. E’ anno di elezioni (un mese circa per andare alle urne) e ci si augura ovviamente che il presidente eletto possa contare anche su una reale maggioranza al congresso per poter attuare con efficacia il piano di sviluppo che dovrebbe portare fuori dalle sacche l’economia americana.
Il problema che si è recentemente affacciato all’orizzonte è tuttavia esogeno alle economie occidentali e qualche grattacapo lo sta procurando a tutti gli addetti ai lavori e si chiama Cina.
Abituata a tassi di crescita a due cifre, motore mondiale dello sviluppo nell’ultimo decennio, da inizio anno il colosso asiatico ha iniziato un preoccupante rallentamento. Sbilanciata storicamente sul versante delle esportazioni l’economia cinese si trova a sua volta in carenza di ordinativi da parte dei paesi europei e degli Usa. La crisi infatti si esporta e gli ultimi dati sono inequivocabili. La Cina ha ridotto i volumi dell’export ma ha anche conseguentemente rallentato visibilmente la domanda di materie prime e il suo trend di crescita è ora intorno al 7%. Averlo - diremmo noi europei - un trend simile, ma la struttura produttiva cinese ha un livello ben più alto del nostro per considerare l’ingresso in recessione. Sotto il 5-6% di crescita anche la Cina tira la cinghia.
Non è che non lo si sapesse e non è che le autorità cinesi stiano a guardare il fenomeno senza fare nulla, anzi, gli interventi di stimolo della domanda interna ci sono, eccome, ma nulla ci può garantire dalla piena riuscita delle manovre in atto. Se infatti anche il gigante giallo dovesse finire in recessione allora sì che potrebbero essere dolori per tutti.
Lo scenario più probabile che si sta delineando dunque è quello di bassi rendimenti per la parte obbligazionaria del portafoglio mentre la componente azionaria sarà sottoposta a continui alti e bassi sulla scorta dei dati che di volta in volta potranno confermare o disattendere le aspettative di ripresa e ciò non solo a livello di mercati occidentali ma a livello globale.
La strategia è dunque quella di incrementare il livello tecnico per la gestione del portafoglio comprimendo e controllando al massimo le aree di volatilità ed assumendo un atteggiamento molto più dinamico e flessibile rispetto al passato. E’ un segno dei tempi; “fiuto” e vecchie abitudini rischiano di presentare agli investitori un conto piuttosto salato e dati i tempi che corrono non è certo il caso di sprecare risorse.
Il denaro, si dice, non dorme mai; almeno cerchiamo di non dormire anche noi investitori.

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