domenica 2 luglio 2017

Laboratorio GAM - Lezione N. 226 - Ancora sul paradosso fondamentale del passaggio generazionale


Nella lezione precedente abbiamo visto i tre casi in cui è possibile fare valutazioni/stime probabilistiche, cioè i casi in cui non vale la “incertezza radicale” di cui ci parla King nel suo bel saggio.

Abbiamo già accennato al recente lavoro di Mervyn King (La fine dell’alchimia, il Saggiatore, 2107). Un punto rilevante di questo lavoro, per quanto concerne l’attività di consulenza, riguarda quello che si aspettano i non addetti ai lavori da un “consulente di qualità”, per così dire, quale è in effetti il governatore della Banca d’Inghilterra quando viene “consultato” dal governo. Dicevo che tutto il resto, tutto quanto ciò che non rientra nelle categorie descritte nella lezione precedente, e cioè le valutazioni/stime probabilistiche, è riconducibile a quella che King chiama “incertezza radicale” e che ha, tra le altre conseguenze, l’imprevedibilità del futuro.
Questa “incertezza radicale” è profondamente sottostimata dai più che possono, almeno i più preparati, accettare che un economista si muova a livello di modelli formali che non hanno o hanno poco impatto sulla realtà o la spieghino solo a posteriori e su tempi molto lunghi. Queste stesse persone, però, tendono a non accettare che un “operativo”, come il governatore della banca centrale, non sia in grado di fare stime dei rischi e quindi previsioni sul futuro.
Nonostante i ripetuti insuccessi dei modelli di previsione economica, l’idea che esista (e che si tratti solo di trovarlo) un “modello” dell’economia in grado di sfornare previsioni esatte è dura a morire. Quando sono stato chiamato a testimoniare alla Commissione Tesoro della Camera dei Comuni, ho dovuto rispondere più volte con un: “Non lo so, non ho una sfera di cristallo”. Molti parlamentari hanno reagito con sdegno: si vede che nella loro mente il mio lavoro consisteva nello scrutare una palla di vetro e dire che cosa stava per accadere. Non c’è stato verso di far capire loro che il futuro non lo possiamo prevedere, né io né nessun altro. In tutte le epoche, i medici improvvisati che vendono farmaci miracolosi e gli astrologi che vendono profezie sono sempre stati richiestissimi. Oggi a queste categorie si sono aggiunti gli economisti che vendono previsioni: segno di un comprensibile quanto irrazionale desiderio di certezza.
Perché siamo così restii a capire che il futuro è fuori dal nostro controllo? La riluttanza a dare ai rischi il rilievo che meritano nasce forse dalla difficoltà di molti di noi nel comprendere la logica probabilistica …  Quando pensiamo alla nostra vita personale, accettiamo che la dea bendata abbia un peso, ma quando si parla di denaro siamo ancora aggrappati alla ”illusione della certezza”. (Mervyn King, La fine dell’alchimia,  pp. 128-129).
In realtà anche nel caso delle nostre vite personali le recenti ricerche di psicologia (ricordate l’illusione della fine della storia, di cui vi ho già parlato?), mostrano che noi sottovalutiamo l’incertezza e il cambiamento nella nostra vita futura. Questa sottovalutazione è l’altra faccia della medaglia della “illusione della certezza”. Entrambe derivano dalla tendenza a focalizzarci su quello che conosciamo e che ha fatto parte della nostra esperienza passata, escludendo così possibilità ed eventualità che riteniamo non solo che potrebbero capitare, ma che, sui tempi lunghi in effetti capitano.
Affrontare un’incertezza non quantificabile, su cui non abbiamo alcun controllo, mette in crisi il nostro ordine mentale. E’ qui che nasce la nostra tentazione di credere ciecamente agli esperti che spacciano certezze e di fidarsi delle estrapolazioni del passato. Se i prezzi delle case aumentano ogni anno da tanto tempo, sembra naturale pensare che continueranno a farlo.
Queste convinzioni spesso alimentano un ulteriore aumento dei prezzi, finché non sopraggiunge un evento esterno  …  (King, op. cit. p. 120).
Si può notare che la stessa espressione, oggi in voga sui mercati finanziari, di risk-on e di risk-off, in riferimento alla scelta di passare dai titoli a reddito fisso ai mercati azionari (on, e viceversa: off), è vagamente fuorviante in quanto implica che si possa misurare questo tipo di rischio. A stretto rigore sarebbe più importante dire “uncertainty in”, oppure “off”, dato che l’incertezza dei mercati è traducibile in rischio solo su tempi molto brevi, e in modi approssimativi (cfr. lezione precedente).
Ecco l’esempio più recente trovato su Bloomberg, riferito all’ultimo discorso di maggio della Yellen: “Treasuries rallied amid a risk-off bid throughout markets Monday, holding onto gains after late remarks by Federal Reserve Chair Janet Yellen about the U.S. economy”.
Questo stato di cose ha portato a un grande fraintendimento nei confronti dell’importanza del passaggio generazionale e del ruolo del consulente. Anche questo contribuisce, in modo riduttivo e quindi fuorviante, a far credere che il consulente abbia il compito di consigliare “gli investimenti  giusti”.
Questo è vero solo se s’interpreta il termine “giusti” come “diversificazione del patrimonio”, e non “giusti” come “scelti bene  per il portafoglio”. Ma la conseguenza più negativa di questo fraintendimento è che non si chiede al nostro consulente la cosa che dovremmo chiedere, in quanto assolutamente prioritaria. E lui non sempre riesce a guidarci in questo senso. Oggi, come si è visto nella lezione precedente, in Italia sarebbe urgente accelerare il passaggio generazionale. Se, in media, lo si fosse fatto dieci anni fa, anticipandolo rispetto alle scadenze adottate, e se si fossero, in concomitanza a tale passaggio, anche gradualmente, ri-bilanciati i patrimoni, oggi avremmo in Italia un risparmio complessivo non di ottomila miliardi ma di almeno dodicimila.

Se non ci fossimo “affidati” solo alle componenti che sono state sopravvalutate, rispetto a un portafoglio ben differenziato, sopravvalutate e quindi sovra-pesate, in forza della fuorviante euristica del riconoscimento (scegliere ciò che ci è familiare) e dell’estrapolazione del passato (illusione della certezza), allora avremmo dato più peso nel portafoglio a componenti:
- non italiane,
- non in euro
- e non reddito fisso
e, soprattutto, avemmo meno immobili, se fossero stati  scelti non come investimenti ma solo come servizio (in pratica una o due case per famiglia: avremmo complessivamente un terzo al massimo dei patrimoni in immobili e non più della metà!). Tutto ciò avrebbe dato una spinta molto forte all’incremento della maggior parte dei patrimoni degli italiani. Purtroppo, invece di occuparsi del passaggio tra generazioni in un’ottica di ruolo del consulente, inteso come guardiano del patrimonio totale sui tempi lunghi, ci si è concentrati sulla concezione riduttiva della consulenza come gestione del portafoglio.
Per lo meno in Italia, una riduzione dall’1% medio di costo di gestione dei portafogli gestiti avrebbe avuto nell’ultimo decennio un peso molto inferiore ai vantaggi che avremmo acquisito anticipando il passaggio generazionale. E invece il timore è oggi che tutto il dibattito si concentri e si riduca alla Mifid2, ai costi di gestione, e alla superiorità dei fondi passivi rispetto ai fondi attivi. Questo dibattito, importato dagli USA, è oggi in Italia fuorviante perché distoglie dai problemi più urgenti, di cui il più pressante è proprio il passaggio generazionale.
Questo errore "di prospettiva" dipende dall’aver importato il dibattito USA, dove il problema del passaggio generazionale è ben diverso perché la cultura “familiare”, in ottica economica-finanziaria, ha ben poco a che fare con quella italiana. Questa influenza negativa è bene illustrata dalle figure qui riportate, oggetto prevalente del dibattito USA che si riverbera anche nel nostro paese.

La figura mostra la tendenza forte negli USA, nel corso del 2016, a passare da attivo a "passivo". Fonte: Bloomberg modificata.


La figura mostra come, negli USA nel 2016, tra i 10 titoli più trattati, siano solo tre quelli singoli, corrispondenti a una specifica azienda quotata. Prevalgono i fondi passivi. Fonte: Bloomberg modificata.

La figura mostra come, negli USA nel complesso del 2016, si sia usciti dai fondi attivi (blu) per riversare i soldi sui passivi (rossi).  Prevalgono quindi i fondi passivi. Fonte: Bloomberg modificata.
L'incertezza radicale di cui ci parla King è quella che dovrebbe in teoria spingere a diversificare i patrimoni. Ma non con la diversificazione “intuitiva” che, per troppo tempo hanno usato gli italiani. Al contrario con una diversificazione scientifica che richiede di non prendere la prospettiva di “corto respiro” che caratterizza la maggior parte dei patrimoni del nostro paese (la diversificazione intuitiva viene fatta scegliendo come canali di investimento e come alternative quelle note al risparmiatore sulla base della sua familiarità passata con i vari tipi di investimenti, e non con il ventaglio oggettivo delle possibilità: quanto più una persona è anziana quanto più tale strategia intuitiva è forte perché poggia sulla sua esperienza passata).
Anche noi abbiamo insistito con la necessità della diversificazione. Ormai, la grande crisi del 2008 l’ha resa familiare a tutti e tutti i media ne ricordano sempre la necessità.
Esiste però un fenomeno molto più rilevante di cui raramente si parla, ed è il nodo del "passaggio generazionale". Perché se ne parla raramente? In primo luogo, prima ancora che per la presenza di variabili più squisitamente psicologiche, per il fatto che quasi tutti i dibattiti prendono in considerazioni le tematiche complessive, quelle che interessano i singoli paesi e i blocchi più ampi, soprattutto gli USA, e non la specificità delle famiglie. In Italia invece la situazione sopra descritta vede solo nel passaggio generazionale l’occasione più rilevante e adeguata per quella ristrutturazione graduale dei patrimoni che è molto benefica, e più urgente dei temi di cui si parla spesso.
Tutto ciò è un altro aspetto del paradosso fondamentale del passaggio generazionale: concentrandoci sui portafogli finanziari, sul dibattito attivo/passivo, e sull’incertezza dei tempi, ci si dimentica che, paradossalmente, nel contesto specifico del panorama del nostro paese, proprio un portafoglio ben gestito – in assenza della prospettiva del passaggio generazionale – è un portafoglio mal gestito perché spesso troppo centrato sul breve termine e la prudenza ad esso connessa, data l’età del detentore del portafoglio e il suo "profilo di rischio" specifico in media di quell’età.


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