giovedì 6 luglio 2017

Laboratorio GAM - Lezione N. 227 - Gli ostacoli psicologici al passaggio generazionale



Abbiamo già esaminato cinque dei principi psicologici che spiegano le difficoltà a prendere in considerazione il passaggio generazionale. Ora passerò in rassegna altri principi, per poi procedere a una serie di considerazioni più generali nel corso
delle prossime lezioni. Nei miei recenti incontri con i consulenti ho notato molto interesse per il tema e quindi ho deciso di approfondirlo.
Quinto principio: pauroso ≠ non pericoloso
Le persone non "vedono" i pericoli perché guardano solo nello specchietto retrovisore della loro vita e vedono i guai solo quando sono già successi. Questo è il motivo per cui la vita è sempre più sorprendente del previsto, e non sempre per il meglio.

Si tratta di un punto che ho già sviluppato in Economia della mente per contribuire a spiegare la (pessima) gestione "spontanea" dei portafogli nel "fai da te". Si tratta però di un principio che attiene anche al passaggio generazionale perché è un "passaggio" della vita che può fare paura.

Nella preistoria, si usciva di casa -  dalle caverne, o dalle abitazioni su palafitte, relativamente sicure – e poteva succedere di tutto. In un attimo, da predatori quali si cercava di essere, poteva capitare di ritrovarsi prede. La paura era allora un’emozione cruciale, o meglio "adattiva". Ci permetteva di fissare in memoria gli scenari in cui, per un pelo, si era riusciti a scampare a pericoli mortali salvandosi da situazioni rischiose.
Contribuiva alla sicurezza anche l’autorità dei “grandi” che ci insegnavano a evitare i pericoli. Originariamente l’istruzione e l’addestramento servivano ad alzare le probabilità di sopravvivenza in ambienti ostili e rischiosi. Per esempio, i grandi della nostra tribù ci dicevano: “Non giocare con l’acqua quando il sole è alto!”. Se i bambini avessero disobbedito, sarebbero andati al fiume nelle ore più calde, quando gli animali si dissetavano e i coccodrilli stavano in agguato sperando in una bella colazione. I nostri antenati temevano per lo più le situazioni oggettivamente pericolose e, grazie a queste paure, non andavano a ficcarsi nei guai. Una cultura che fosse stata priva di questa emozione basilare sarebbe stata destinata all’estinzione. Come aveva osservato Darwin, alla fine dell’Ottocento, non sono i più forti e i più coraggiosi a sopravvivere, ma chi si adatta meglio ad ambienti in rapido mutamento. 
Poi, nei tempi moderni, tutto si è complicato. Per esempio: la paura di dormire soli. Una volta era una paura sensata perché i genitori ci proteggevano dai pericoli. Oggi le stanze da letto dei bambini sono sicure tanto quelle dei grandi e, un po’ alla volta, lo impariamo, se non abbiamo genitori troppo apprensivi.
Le emozioni non si eliminano mai con le spiegazioni a parole, ma con gli esempi e il prevalere di altre emozioni, più forti. Nel caso delle paure, la fiducia negli altri e in se stessi è essenziale.
Un altro esempio: il timore del buio. Un tempo questo tipo di timore evitava ai bambini di incappare in quei pericoli che corrono, oggi, le persone non più giovani. Negli Stati Uniti, dove si misurano le frequenze di tutti gli incidenti, un anziano non ha per solito paura di muoversi al buio pur di non disturbare i familiari accendendo la luce. Scende dalle scale, inciampa e cade: per i vecchi questa è la causa più frequente d’incidenti, oltre a scivolare durante la doccia. Due scenari casalinghi che per solito non fanno paura, ma che sono in realtà molto pericolosi. 
La separazione ingannevole delle paure soggettive dai pericoli oggettivi colpisce oggi più spesso i grandi che non i bambini. Per esempio, le persone mature temono violenze, omicidi, furti: la televisione li mette continuamente in allarme.  In realtà nel 2015 gli omicidi sono stati 479, il numero più basso da un secolo a questa parte. Quando ero piccolo, all’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso, erano più di tre volte. Anche i furti nelle abitazioni sono diminuiti nel 2016 rispetto al 2015.
Paradossalmente, l’Italia, è in media un paese sicuro e, al contempo, molto corrotto. La corruzione incute timore a pochi, anche se fa molti più danni dei ladri “tradizionali”. 
Un altro esempio sono i viaggi: gli aerei sono più sicuri delle auto, ma le paure dei grandi vanno in senso opposto. E in auto tendiamo ad aver paura degli altri, anche se la maggior parte degli incidenti è dovuta alle distrazioni di chi guida, soprattutto se è alle prese con un telefonino.
In conclusione, i bambini hanno, in media, paure più giustificate e comprensibili perché collegate a quelle situazioni che, soprattutto in passato, erano pericolose. La paura di ammalarsi è benefica perché stiamo attenti a evitare di esporci a malattie: sono solo i grandi ad aver paura dei vaccini e a causare guai. Poi ci sono situazioni e circostanze in cui non agisce la paura in senso proprio: i bambini non temono i compiti scolastici, semplicemente non hanno talvolta voglia di farli. Devono però imparare a procrastinare i desideri: qualcosa che adesso è spiacevole si trasforma in risultati benefici sui tempi lunghi.
Purtroppo bisogna saper aspettare più che in passato. Ci si deve impegnare per anni per gli obiettivi più importanti della vita, ed è bene cercare di divertirsi anche lungo la strada, senza aspettar ricompense molto lontane nel tempo.
Molti timori ormai vengono non da quello o da chi ci circonda, ma dalla cultura in cui siamo immersi. Le famiglie “normali” sono statisticamente rare, ma sono quelle che la pubblicità mostra come “famiglie buone”. Qui bisogna imparare a ragionare con la propria testa, a fabbricarci le paure sulla base delle nostre esperienze, rispettandole, perché in loro c’è la nostra vita, quel che abbiamo imparato sul mondo a nostre spese.  Questa riflessione vale dunque anche per il passaggio generazionale.
Del passaggio generazionale si tende ad avere paura perché le persone vanno verso il futuro tenendo presente quello che è loro capitato in passato e ciò che è sconosciuto, e che non si è mai esperito, tende a fare paura.
Ho già ricordato come le persone vadano verso il futuro sconosciuto come se camminassero a ritroso, proprio come nel famoso acquarello di Paul Klee, da lui chiamato Angelus Novus. «C’è un quadro di Klee che s'intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto.
Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta».
Walter Benjamin (15 luglio 1892 – 26 settembre 1940)

La nostra tendenza ad andare verso il futuro voltandogli le spalle ci fa credere che il futuro sia immutabile. Questo è un importante fattore di procrastinazione dei nostri programmi di vita e, quindi, anche del passaggio generazionale, il più traumatico dei programmi di vita.

All’inizio del 2013 la rivista Science ha pubblicato una ricerca ideata da Daniel Gilbert, famoso psicologo di Harvard. Circa ventimila persone di diverse età, dai 10 ai 68 anni, hanno valutato, in molti ambiti, quanto erano cambiati negli ultimi dieci anni e quanto, secondo loro, sarebbero cambiati nei prossimi dieci anni. Nel complesso, i dati mostrano un curioso effetto che Gilbert ha chiamato «illusione della fine della storia». Succede che dai trenta fino ai sessant’anni, le persone dichiarano che la loro vita è molto cambiata nel decennio alle loro spalle, ma che non muterà nel decennio futuro. In altri termini, sappiamo che ci sono successe molte cose, ma pensiamo che ormai ci siamo stabilizzati, e che quindi la nostra storia futura sarà all’incirca una replica di quella passata. I dati mostrano che è un’illusione perché, passati i dieci anni, le persone dichiarano che sono cambiate. L’asimmetria tra il peso rilevante del passato e un futuro che si prevede scontato e stabile era già stata intuita da Robert Musil nel L’Uomo senza qualità.

I giovani – dice Musil – hanno davanti molte possibilità, ma ben presto «si trovano davanti qualcosa che pretende oramai d'essere la loro vita». 
In altre parole con l’età adulta ci si forma un’immagine di sé, esito delle nostre qualità e non del caso.
Un'autorappresentazione, frutto della nostra cultura e delle nostre esperienze, cui siamo particolarmente affezionati: al punto di ritenere improbabile un cambiamento. Questo “congelarsi” del tempo e del cambiamento ci nasconde le svolte future della nostra vita ed è uno dei fattori per cui rimandiamo il passaggio generazionale. Fare questo passaggio vuol dire, implicitamente, ammettere che il tempo passa.

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