domenica 7 luglio 2013

Laboratorio Swiss & Global - Lezione N. 42 – Leopardi e le macchine darwiniane


Nel passaggio 66.2 dello Zibaldone, Giacomo Leopardi osserva:  “Se tu hai un nemico mortale nella tal città e vedi che v’è sopra un temporale, ti passa pur per la mente la speranza che egli ne possa restare ucciso? Or come dunque ti spaventi se quel temporale viene sopra di te, quando la probabilità è tanto piccola che tu non ci sai neppure fondare quella cosa che ha pur bisogno di sì poco fondamento per sorreggere in noi, dico la speranza? Lo stesso intendo dire di cento altri pericoli, i quali se in vece fossero probabilità di ben, ci porrebbe ridicolo il porci per esse in nessuna speranza, e pure ci poniamo per quei pericoli in timore. Tant’è: bisogna bene che per quanto la speranza sia facile a nascere, e insussistente, il timore lo sia di più. Ma questa riflessione mi pare molto atta a temperarlo. Il timore è dunque più fecondo d’illusioni che la speranza”.

La traduzione inglese di Tim Parks (Domenicale Sole24Ore, 19.5.2013) chiarisce alcune ambiguità dell’originale:

“If you have a bitter enemy in a certain town and you see a thunderstorm over the place, do you even vaguely hope it might kill him? So why are you afraid yourself if the same storm hovers over you, when the chances of its striking are so remote you couldn’t even find a reason for hoping it would dispatch your enemy, despite the fact that hope can perfectly well spring with hardly any reason at all? The same is true of a hundred of other dangers; if they were opportunities for something positive you’d feel it was ridiculous to place any hope in them, yet as dangers you fear them. So it is: however easily and groundlessly hope may spring, fear does so even more readly. But this reflection seems rather useful for caming it. So fera creates more illusions than hope?”. La conclusione di Leopardi è che il timore di una perdita è diverso dalla speranza di un guadagno, anche se perdite e guadagni sono uguali e equiprobabili. Una volta ho assistito a una scena in cui il premio Nobel Kahneman, riprendendo una battuta del suo amico Tversky, rispose dicendo a un interlocutore, che voleva una sintesi semplice della sua teoria, senza formule e grafici: “Quanti timori, relativi allo stare peggio di adesso, le vengono in mente, e quante speranze di poter stare meglio?”. Tornando a Leopardi, egli intuisce molti principi della futura finanza comportamentale, in primis l’asimmetria tra speranze (di guadagni) e timori (di perdite). A parità di probabilità - probabilità che comunque sopravvalutiamo (overconfidence) - temiamo molto di più una futura perdita che non un mancato guadagno. E questo lo mostrano bene due fatti di cui si è già parlato nella precedente lezione: gli investitori da più di tre anni comprano titoli di Stato che non coprono l’inflazione, e contemporaneamente escono dai mercati azionari che sono raddoppiati di valore. La paura del pericolo è più forte della speranza di guadagno.

Inoltre, implicitamente, Leopardi ammette che entrambe, speranza e timori, sono illusioni (in quanto insussistente è anche la speranza). Qui si allude al fatto che il mondo è più creato dal caso di quanto noi si voglia ammettere. Dove Leopardi si sbaglia, è nel ritenere che la “riflessione sia atta a temperare” tali pensieri. Oggi sappiamo che non si tratta di errori, ma di ricorrenti e sistematiche distorsioni cognitive, e cioè, nel linguaggio quotidiano, illusioni, termine che peraltro usa lo stesso Leopardi. Qualche decennio dopo lo Zibaldone di Leopardi, il ruolo del caso sarebbe ritornato prepotentemente sulla scena per restarvi per sempre.

Darwin spiegherà il cambiamento delle forme di vita con quelle che che oggi siamo soliti chimare in gergo “macchine darwiniane”. Una macchina darwiniana funziona in modo ciclico grazie a due componenti. La prima produce repliche caratterizzate da variazioni casuali. La seconda seleziona quelle repliche le cui variazioni si adattano meglio a nuovi scenari e ambienti di vita. Ciclo dopo ciclo, saranno queste variazioni a riprodursi di più, e le loro repliche prevarranno.

La mente umana può spiegare il cambiamento ricorrendo a un paradigma come quello delle macchine darwiniane, oppure come l’esito di scelte guidate da un “progetto intelligente”. In genere questo secondo tipo di spiegazione viene preferito in quanto più semplice, intuitivo e analogo ai nostri modi di impostare progetti e agire nel corso della vita quotidiana. Esso fa appello all’azione di meccanismi intenzionali, e non all’incontro di variazioni prodotte dal caso e selezionate da filtri a loro volta casuali. I paradigmi basati sul dispiegarsi di “progetti intelligenti” hanno ostacolato l’affermarsi delle idee di Darwin. Darwin ha iniziato una radicale rivoluzione mettendo a punto un concorrente temibile, alternativo all’ipotesi di progettisti intelligenti. Un secolo dopo Darwin, nel 1952, Markowitz pubblica la prima versione della tesi di dottorato “Portfolio Selection”, inventando quella che da allora è nota come teoria classica del portafoglio. Si tratta di una procedura per le scelte di portafoglio che funziona come una macchina darwiniana.  La teoria riposa su concetti statistici elementari (media, varianza, correlazione). E tuttavia, da un punto di vista psicologico, incontra i classici ostacoli attribuibili alla necessità di sostituire la nozione intuitiva di progetto intelligente con l’azione del caso. La teoria si è affermata presso gli esperti perché è la sua applicazione che fa replicare i nostri risparmi, fa mutare di composizione i nostri portafogli che, solo in questo modo, riescono a riprodursi lungo più decenni. Così come capita alle specie viventi, la logica di sopravvivenza dei portafogli è basata sullo stesso principio anti-intuitivo, anche se tale principio si manifesta per intervalli di tempo che spaziano su scale plurimillenarie.

La natura non intuitiva della teoria di Markowitz trae origine dai diversi meccanismi mentali che abbiamo esaminato nelle lezioni precedenti (per un approfondimento cfr. il mio ultimo saggio, da fine giugno in libreria per i tipi de Il Mulino).

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