IL 2017 SI E’ CONCLUSO ED E’ TEMPO DI BILANCI
intreccio di fattori economici e politici.
L’ultima settimana dell’anno, come si può
desumere dal grafico d’apertura, è stata piuttosto contrastata per quanto
riguarda il paniere degli indici sotto osservazione; i mercati occidentali, con
l’eccezione della Gran Bretagna e dell’indice nipponico hanno tirato il fiato
portandosi in area negativa mentre hanno proseguito la marcia al rialzo tutti i
rimanenti indici, sostanzialmente i Bric più la borsa di Hong Kong.
Questa contrapposizione finale non ha assolutamente intaccato il trend dominante del 2017: rialzo, rialzo, rialzo.
Andiamo dunque a vedere le risultanze dei nostri indici nel corso del 2017:
Non uno di essi in territorio negativo, neppure la borsa di Mosca che sino alla vigilia di Natale era rimasta in coda al gruppo pressoché costantemente sotto i valori di inizio anno su cui pesava anche un drawdown infrannuale del 14%; santo petrolio ha fatto sì che la situazione si ribaltasse sul filo di lana.
A chiudere, sotto il 10%, troviamo Francia,
Regno Unito, Shangai, l’indice Eurostoxx 50 e la borsa moscovita, di cui
abbiamo già detto. Si tratta però di performance in valuta locale, che devono
essere rivedute e ridimensionate - per un investitore in euro - alla luce dei
rapporti di cambio che nel corso dell’anno hanno registrato movimenti piuttosto
ampi, come vedremo più avanti.
Le borse che hanno colto questi risultati sono
state quella brasiliana, gli indici Nasdaq e S&P 500 nel continente americano,
Germania e Gran Bretagna in Europa e in Asia l’India. Sospinto dal forte peso
relativo di questi mercati, anche l’indice globale MSCI World ha superato i
precedenti massimi.
Se da un lato il 2017 si è rivelato un anno
decisamente favorevole per gli investitori in equity la domanda da porci è se
ci si possa attendere per l’anno entrante un clima altrettanto favorevole.
IL
DOMINIO DELL’EURO SUI MERCATI VALUTARI
Come nostra
consuetudine indichiamo, nel grafico suindicato, l’andamento dei cambi negli
ultimi due mesi, al fine di trarre qualche indicazione sugli andamenti di breve
periodo.
Quello che invece è emerso in modo inequivocabile è stata la forza dell’euro per tutto il 2017. Rispetto alle valute di riferimento nel corso del 2017 l’euro si è rafforzato del 14,10% contro il dollaro Usa, del 10% contro lo yen giapponese, del 4,20% sulla sterlina inglese e del 6,90% sullo yuan cinese. Lo si può vedere nel grafico seguente.
Vediamo ora l’andamento dell’euro rispetto al
dollaro e allo yen, sostanzialmente diversi fra di loro.
Mentre nei confronti del dollaro l’andamento
rialzista è stato più o meno costante per tutto il 2017, nel caso dello yen nella
prima parte dell’anno la valuta nipponica aveva un andamento rialzista nei
confronti di quella comunitaria e ciò è avvenuto sino alla metà di aprile, dopo
di che c’è stata un’importante inversione. Da quel momento la caduta dello yen
sull’euro è stata di circa 17 punti percentuali, una débacle piuttosto
significativa per la più rappresentativa valuta mondiale extra-comunitaria,
dollaro a parte.
Questo andamento ci dà almeno due indicazioni
importanti. La prima è quella che i rialzi dei mercati azionari, corretti per il
cambio con l’euro sono sensibilmente inferiori a quelli precedentemente indicati.
Il secondo aspetto è che la forza dell’euro ha indotto un freno alle
esportazioni europee e il mantenimento di questi livelli potrebbe indebolire la
crescita, da poco iniziata, che abbiamo così lungamente e dolorosamente atteso.
Iniziamo dal rendimento corrente dei bond
sovrani decennali che abbiamo costantemente tenuto sotto osservazione nel corso
del 2017.
Dal punto di vista dell’investitore si tratta
di rendimenti piuttosto modesti, il cui punto massimo è rappresentato dal bond
Usa che remunera il 2,41% (salvo variazioni valutarie – il 14% in meno nel
corso del 2017 ndr) seguito dal btp nostrano, attualmente al 2%; più modesti
ancora i rendimenti dei governativi di Gran Bretagna, Francia e Germania. Andiamo
a misurarli con l’inflazione corrente, che ad ottobre era per Usa ed Unione
Europea, rispettivamente del 2% e 1,7%.
Depurato dell’inflazione il rendimento del
decennale Usa è dello 0,40% mentre in Europa il solo Btp remunera un modesto
0,30% al netto dell’inflazione mentre i rendimenti dei titoli francesi e
tedeschi sono negativi. In Gran Bretagna la misurazione avviene attraverso il
confronto con l’indice CPI che comunque
è almeno il doppio del rendimento offerto dal decennale britannico.
Come si dice in questi casi, non c’è trippa per
gatti.
Vediamo ora quali sono state le differenze fra
i valori iniziali e finali di questi titoli.
In Usa e Gran Bretagna i rendimenti hanno
subito dei modesti cali nel corso del 2017, fatto abbastanza sorprendente dato
che i tassi di riferimento sono invece cresciuti. In termini percentuali il
calo è stato del 1,70% in Usa e del 11,00% in Gran Bretagna.
Nell’area euro tutte e tre i paesi del nostro
osservatorio presentano a fine anno rendimenti superiori a quelli dell’anno
precedente. In Italia il Btp rende attualmente il 2% contro l’1,80% di fine
2016. In Francia il rendimento corrente è pari allo 0,78% contro lo 0,68%
dell’anno scorso. Molto più evidente, in termini percentuali, lo scarto di
rendimento del bund tedesco che in corso d’anno è cresciuto di oltre il 100%
attestandosi allo 0,42%. In Francia e in Italia i rendimenti sono cresciuti
rispettivamente del 13,90 e 9,80%.
Con i dati di inflazione correnti e con il
rientro delle facilitazioni monetarie, attese per l’anno venturo, possiamo
ragionevolmente aspettarci dei rialzi, ancorché modesti, dei rendimenti con
conseguente riduzione degli attuali livelli di prezzo dei titoli
obbligazionari.
CONCLUSIONI
Razionalmente possiamo affermare che l’anno
entrante non sarà un anno facile, ma lo stiamo ripetendo da anni e chi ha
mantenuto un atteggiamento prudenziale si è trovato con rendimenti poco
gratificanti. La situazione è la stessa. Il lungo ciclo iniziato nel marzo 2009
potrebbe proseguire ancora sospinto da una miscela di tassi bassi e innovazioni
tecnologiche a cui però fa da contrappeso l’impoverimento generalizzato della
classe media, causa l’enorme concentrazione della ricchezza, che resta un freno
per l’incremento dei consumi e la possibilità che un aumento dell’inflazione
possa innescare manovre sui tassi che andrebbero a riverberarsi sulle
componenti più volatili dei portafogli.
Ancora una volta un bell’enigma che ci induce
ad evitare innanzitutto di fare previsioni e in secondo luogo di collegare gli
investimenti agli orizzonti temporali più adeguati, evitando di lasciarci
coinvolgere dai rumors di breve ma al contempo adottare in via sistematica
sofisticati sistemi di monitoraggio del portafoglio. In mancanza della sfera di
cristallo è in via assoluta un buon metodo di lavoro.
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