E ORA TOCCA A TRUMP
Barack Obama ha passato il testimone a Donald
Trump e, non appena insediatosi, quest’ultimo
ha fatto sentire la propria voce. “Compra e assumi americano” e “America First”
sono i suoi slogan e, dopo l’euforia
scatenatasi sull’onda delle promesse,
toccherà ai fatti confermare se la crescita dei mercati degli ultimi due mesi era
giustificata oppure no.
Limitiamoci inizialmente a fare il punto della
situazione relativamente all’andamento dei mercati: come si può ben vedere, in questo
scorcio di inizio anno la crescita delle borse è sostanzialmente un fatto
acquisito. Fatta eccezione per Mosca e Parigi, leggermente negative, tutti gli
indici sotto osservazione sono in area positiva. Brasile, Hong Kong e il Nasdaq
guidano la classifica dei migliori con performance rispettivamente del 7,13%,
4,02% e 3,20%. I rimanenti mercati, alla terza settimana di contrattazioni, si
stabilizzano in un range racchiuso fra
il modesto +0,12% di Tokyo e l’1,53% dell’India.
Se spostiamo però il nostro osservatorio alla
settimana appena trascorsa ci accorgiamo immediatamente che nell’aria c’è
qualche tenue turbolenza. Solamente due borse chiudono con segno positivo, il solito
Brasile in crescita del 1,37% e la borsa di Shangai con un modesto incremento (+0,33%).
Perfettamente in parità la Germania e tutti gli altri mercati in arretramento
con le cui massime punte di negatività fanno capo alle borse della Svizzera
(-2,09%) e della Gran Bretagna (-1,90%) alla quale le enunciazioni della Sig.ra
Theresa May su Brexit non hanno certo
giovato. E’ evidente che – se non si può ovviamente parlare di mutamento di
clima – si può almeno pensare ad una pausa di riflessione dato il
condizionamento della predetta presa di posizione britannica (hard exit) e l’avvio
dell’”era trumpiana”.
Passiamo ora ai tassi dei titoli governativi,
in crescita da inizio anno senza eccezione alcuna, con una crescita piuttosto
elevata per quanto riguarda Germania e Francia. Il rendimento del bund
decennale tedesco, da inizio anno passa da 0,21 a 0,42%, il che significa un
raddoppio dei rendimenti in meno di un mese, evento da tenere in assoluta
considerazione e sotto monitoraggio. Per la Francia il corrispondente titolo di
riferimento è cresciuto di un terzo dal primo gennaio, dunque un altro
campanello d’allarme per questi titoli del debito pubblico dell’area euro.
Passando infine al mercato valutario,
nell’ultimo mese è proseguito il rafforzamento dell’Euro sul Dollaro Usa, sulla
Sterlina inglese e lo Yuan cinese. Resta in parità, a un mese, il rapporto di
cambio sullo Yen giapponese. Ferma restando l’importanza della diversificazione
valutaria del portafoglio, in questa fase i cambi limano le precedenti performance
e aumentano – in misura marginale – anche le difficoltà per l’export verso
queste aree.
IL “PIANO
TRUMP” SARA’ VERAMENTE EFFICACE?
Il cavallo di battaglia di
Donald Trump si può sintetizzare nel motto “fare grande l’America” il che equivale
a un giro di vite alla libera circolazione di merci e persone; i maggiori
bersagli di queste restrizioni dovrebbero essere paesi come la Cina e l’intera comunità
europea. Nuovi partner sono invece individuati nella Russia dell’amico Putin e
nella Gran Bretagna, la vecchia madre-patria che ha trovato la forza di opporsi
alle regole comunitarie affrontando un salto nel vuoto a cui Trump – a parole –
ha offerto una rete di protezione.
Ciò che si aspettano però gli
elettori nordamericani sono tagli di tasse e nuovi posti di lavoro, magari
anche ben remunerati, che Trump ha individuato nelle attività produttive
tradizionali ossia quelle che sino ad ora hanno delocalizzato per una questione
di costi e nelle quali è presupponibile un massiccio processo di robotizzazione
nei prossimi anni. Orbene i robot non percepiscono stipendi, dunque non
spendono e, d’altro canto, non possono spendere stipendi che non guadagnano
operai e impiegati sostituiti proprio dai robot. Per i non addetti ai lavori va
rimarcato che Trump punta alla creazione di 25 milioni di nuovi posti di
lavoro. Come ciò possa accadere per me resta un mistero.
Ora, ammesso e non concesso
che questi buoni propositi possano essere realizzati, ne consegue che sul debito
pubblico statunitense si eserciterebbe una certa pressione e la supposta
crescita a sua volta innescherebbe un processo inflativo. Orbene, maggiore
crescita provoca maggiore inflazione e maggiore inflazione maggior costo per un
debito pubblico non certo in diminuzione ma in aumento. Ne consegue ancora che
il dollaro si apprezzerebbe diventando un ostacolo per le esportazioni verso un
mercato divenuto più ristretto ed ostile per la stessa volontà di Trump.
Qualcosa non quadra in questo
piano e, passato l’entusiasmo iniziale, gli operatori d’ora in avanti saranno
costretti, loro malgrado, a monitorare accuratamente il successo dell’ambizioso
programma della presidenza USA spingendo o rilasciando il piede dell’acceleratore
della macchina degli investimenti finanziari. Per ora qualche timido segnale di
riflessione sembra essere giunto visto che, dopo aver raggiunto i massimi storici, il flusso di denaro in
entrata sugli indici americani si è interrotto e nelle ultime sedute i
disinvestimenti sono stati pari a 2,5 miliardi di dollari (Fonte IlSole-24Ore
del 21/1/2017).
Il dilemma, dal vago sapore amletico, che ronza
nella testa degli operatori è per l’appunto il seguente: “incremento o riduco
le posizioni azionarie”? Nella consapevolezza che un atteggiamento prudenziale
potrebbe essere causa di mancati forti guadagni ma anche che un insuccesso
delle predette politiche economiche potrebbe portare a pesanti perdite da registrare
(nel caso di un atteggiamento aggressivo) gli operatori sono mediamente
perplessi sul da farsi.
Purtroppo non è il copione di
una tragedia, coinvolgente sotto il profilo emotivo ma nulla più; qui si tratta di
incrementare o depauperare patrimoni faticosamente costruiti e lo scenario che
abbiamo di fronte è fra i più incomprensibili e intricati da affrontare degli
ultimi decenni.
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