Ci siamo lasciati sottolineando come la pianificazione previdenziale non sia facile da praticare, soprattutto se non si ha coscienza del problema; all’incontrario, noi cosiddetti “esperti” siamo quantomeno consapevoli del fatto che individui impulsivi, emotivi e con scarsa educazione finanziaria - situazione certamente non rara nel nostro paese - sono soggetti poco disposti verso la programmazione di lungo termine. La propensione all’accantonamento previdenziale invece cresce tra coloro che hanno maggiore familiarità con gli investimenti e tra quelli che si avvalgono di consulenti professionali.
Ne possiamo altresì dedurre che i
primi si accontentano dell’effimero godimento dei buoni risultati finanziari di
breve termine mentre i secondi consapevolmente sacrifichino queste effimere
soddisfazioni per qualcosa di più appagante nel tempo; della serie “ … ride bene chi ride ultimo…”.
La pianificazione previdenziale è
dunque necessaria per affrontare con successo questa problematica, ma non è
condizione sufficiente. Altri comportamenti - assolutamente dannosi - possono
vanificare un percorso di risparmio durato molti anni e nella mia esperienza
(devo dire con una punta di amarezza) emergono sovente proprio nel momento
delle decisioni finali.
“… Se potessi avere mille lire al
mese … “ era il ritornello di una canzone che andava di moda decenni or sono
(era il 1939, la cantava Umberto Melnati, per i cultori, ndr). A quell’epoca 1.000 lire rappresentavano una
somma di tutto rispetto e la canzoncina faceva sognare i nostri nonni
cullandoli nel bellissimo sogno di poter spendere quella cifre mese dopo mese,
dopo mese, dopo mese, senza doversi preoccupare di doverla ricreare di
continuo. Il problema sta in capo ad altri mentre il beneficiario ne assapora
semplicemente il piacere.
C’è una trappola che scatta
spesso alla fine di un percorso di accantonamento previdenziale. Quella di
dover decidere, da lì in avanti, delle modalità con cui supportare il tenore di
vita desiderato attraverso la fruizione di una rendita.
La rendita possiamo crearla
sostanzialmente in due differenti modi. Il primo, quello più vicino alla nostra
esperienza di investitori, è un percorso finanziario. Si prende il capitale
deputato a fornire costantemente del denaro da spendere per le nostre più
disparate necessità impiegandolo in strumenti che liquidino sistematicamente
cedole e dividendi. Questi finiscono sul nostro conto corrente e da lì con
assegni, bancomat o carta di credito li utilizziamo per i nostri acquisti.
Finché c’è capitale il gioco può
proseguire. L’ideale sarebbe conoscere in anticipo la data della nostra morte
e, con il supporto di una semplice calcolatrice, potremmo pianificare il
consumo degli interessi, dei dividendi e del capitale sino al giorno del nostro
decesso, tanto già dal giorno successivo
non avremo più alcun beneficio. Peccato che questa conoscenza esuli dalle
nostre possibilità e, gestendo poco oculatamente il nostro patrimonio, si
rischia di trovarsi al verde quando siamo ancora in vita; quantomeno
disdicevole, no?
Ecco dunque qualche buon motivo
per non dover subordinare la qualità della nostra vita solo alla gestione del
capitale; non solo, ma quel calcolino teorico prescinde da un altro fattore,
ossia che non arrivino brutte sorprese dai mercati o dai titoli e strumenti
finanziari deputati al mantenimento del nostro benessere e, ultimo in ordine di
elencazione ma certamente non meno importante, che il nostro risparmiatore sino
all’ultimo giorno di vita sappia gestire i propri capitali con grande
oculatezza e lucidità, compito non certo facile soprattutto al di là di certe
soglie d’età.
Troppi clienti ho visto nella mia
lunga carriera doversi confrontare con impiegati di banca dal “menù del giorno”
facile o con promotori e consulenti più attenti alle provvigioni o alle
parcelle piuttosto che all’interesse dei loro clienti, soprattutto quando
magari questi sono di salute cagionevole o incapaci di conservare (se mai
l’hanno avuta) la necessaria freddezza e una profonda conoscenza dei mercati
per la migliore gestione del loro patrimonio. O magari (accade purtroppo anche
questo) si trovano intenti a doversi difendere dalla cupidigia di qualche erede
poco propenso ad una lunga attesa per godere dei sacrifici di una vita del caro
parente.
Queste considerazioni mi servono
per introdurre la conoscenza dell’altra strada, che è quella della rendita
assicurativa. Sacrificando la proprietà del capitale, attraverso un contratto
assicurativo, ci si può garantire un vitalizio del quale l’unica preoccupazione
per il nostro risparmiatore rimane quella di spenderlo, esattamente come
recitava il ritornello della canzoncina di prima.
Vi assicuro che la scelta non è
certo semplice e il più delle volte si ricade nelle trappole della mente umana
descritte poc’anzi, ossia quella di sacrificare il lungo periodo per il breve,
la gestione dell’incertezza piuttosto che il sacrificio dello spossessamento.
Per mia esperienza debbo dire che
non basta avere accanto un buon consulente, in quel frangente, se non si ha
avuto cura di creare con lui un lungo e duraturo rapporto fiduciario,
confermato e consolidato . E’ utile, indubbiamente, ma la scelta è in capo al cliente
ed è allora che il lungo percorso accuratamente programmato si concretizza
nella conferma delle scelte originariamente concordate; diversamente, se il
rapporto investitore-consulente è stato vissuto come simbiosi di reciproche
convenienze la razionalità troppo spesso viene relegata in un cantuccio e si
apre la strada della scelta errata.
Ho volutamente esasperato il
concetto della scelta dicotomica, o l ‘una o l’altra strada, per far capire più
approfonditamente al lettore non solo gli aspetti economici sottostanti. Nella
realtà la previdenza ha tre pilastri: quella pubblica che ne costituisce la
base, quella da capitale e quella da rendita assicurativa. Solo un corretto
equilibrio tra queste diverse fonti consente al risparmiatore di soddisfare, al
meglio delle sue possibilità, sia le esigenze di mantenimento del tenore di
vita che la capacità di poter
fronteggiare eventi imprevisti (che accadono anche ai meno giovani) e,
non meno importante, il legittimo desiderio di lasciare una parte del
patrimonio ai propri eredi.
Ecco perché è compito precipuo
del consulente approfondire con la propria clientela questi aspetti e
codificarli in un progetto personalizzato che il cliente si impegnerà a
rispettare.
Purtroppo la scarsa cultura
economica e finanziaria, la debole presa di coscienza del problema
pensionistico e le trappole mentali che imprigionano gli esseri umani in
comportamenti emotivi ed irrazionali costituiranno, purtroppo temo per lungo
tempo ancora, un ostacolo alla realizzazione di un sistema condiviso (fra
risparmiatori e consulenti) in grado di combinare in modo equilibrato esigenze
di breve e di lungo termine per il bene dei singoli e della società nel suo
complesso.
Sarebbe un bene che i
risparmiatori non avessero troppo a cuore l’andamento corrente dei loro
capitali in quanto troppa attenzione è soffocante e pregna di troppa emotività.
Lasciamo che il benessere dei nostri soldi (e di conseguenza delle nostre
aspirazioni) sia affidato alla razionalità e capacità professionale di abili
consulenti.
Immaginiamo infine come potrebbe
essere triste una società come quella italiana tra alcuni lustri, probabilmente
stremata da una crisi endemica, sperequata nella distribuzione della ricchezza
con una ristretta cerchia di benestanti a cui fanno da contrappeso milioni di
individui dal tenore di vita medio-basso,
con un esercito di pensionati dai modesti redditi previdenziali,
immiseriti non solo dal taglio rispetto ai redditi goduti durante l’attività lavorativa
ma anche colpevoli di aver imprudentemente eroso il lascito patrimoniale delle
precedenti generazioni nel vacuo tentativo di conservare un tenore di vita
troppo elevato.
Quella che si potrebbe presentare
tra qualche anno potrebbe essere proprio una società così descritta, avvolta in
una spirale di povertà, e per coloro che si dovessero trovare a viverla in
queste condizioni immagino non possa essere che un vero e proprio incubo dato
che mancherebbero non solo le risorse per la propria alimentazione e le cure
mediche ma anche per il pagamento delle bollette o il fitto dell’abitazione per
i soggetti meno fortunati. Un esercito di pensionati schiumanti di rabbia ma
senza più energie per rimediare.
Per evitare tutto ciò, o
quantomeno ricondurre in termini più accettabili questo cupo scenario, è
indispensabile una presa di coscienza che non sia solo una sporadica scelta individuale
ma diventi una concreta (ossia tradotta nei fatti) presa di coscienza
collettiva.
Chi ha tempo non aspetti tempo,
dunque. Le soluzioni sono a portata di mano e indubbiamente saranno sacrifici
per tutti, ma ne varrà senz’altro la pena. Alternative, purtroppo, non ve ne sono.
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