venerdì 4 luglio 2014

Laboratorio Swiss & Global - Lezione N. 90 – Che cosa rende difficile al cliente capire quel che fa il consulente (e i riflessi sulla relazione con lui)


Quante volte, con i vostri clienti, vi sarete domandati il motivo per cui dovete cercare di spiegare sempre le stesse cose, perché le persone non imparano mai. Certo, molte persone non provano neppure a capire, tanto si fidano di voi. Una relazione però imbevuta di troppa fiducia, di troppa delega, non è buona cosa nel vostro campo. La totale fiducia si rovescia talvolta improvvisamente in totale mancanza di fiducia.

Resta il fatto che è un po’ misterioso come mai le persone non riescano a cambiare punto di vista rispetto alla loro rappresentazione ingenua di quel che si può e deve fare con i risparmi. Non torno su questo punto che ho già approfondito in “Perché gestiamo male i nostri risparmi”.


In questa serie di lezioni voglio invece cercare di rispondere a domande che hanno più a che fare con la relazione cliente-consulente:
Come mai si continuano a compiere gli stessi errori?
Come mai il cliente fa tanta fatica a capire quel che si dovrebbe fare con il suo portafoglio?

Io ho cercato di capire come questo possa accadere. In fondo l’ho fatto per tutta la mia vita. Ed è solo se capite alcuni dei meccanismi che ci rendono tanto impermeabili che sarà possibile impostare bene la relazione con gli stessi clienti. Insomma è bene capire di che pasta sono fatti.

Nei capitoli precedenti vi ho parlato di come ho studiato il problema del 2 – 4 – 6 e del libro che mi aveva cambiato la vita. Ora vi racconto come cercai di studiare il secondo dei due problemi di Peter Wason, solo accennato nel libro già menzionato (un libro ti cambia la vita!). Nel libro di Peter Wason questo secondo problema era solo accennato (più spazio era dedicato al 2 - 4 - 6). Nei decenni successivi, divenne il più famoso rompicapo della psicologia del pensiero. E’ un test delle nostre capacità mentali e della possibilità di allenarle. E’ stato anche il banco di prova per tutte le teorie sull’intelligenza umana che, da allora, si sono avvicendate sulla scena della psicologia. E’ stato chiamato in più modi: compito di selezione (selection task è il nome scelto da Wason) o problema delle quattro carte. Le numerose versioni del problema sono derivate tutte dalla sua originale forma astratta. Eccola.

Qui sotto vedete quattro carte, ognuna delle quali presenta una lettera su un lato e un numero sull’altro lato. Le prime due sono girate dal lato della lettera, le seconde due dal lato del numero. Voi sapete che queste carte sono state costruite sulla base della seguente regola: Se c’è una A su un lato della carta, allora c’è un 2 sull’altro lato”

Il vostro compito è indicare quali carte bisogna girare per stabilire se questa regola è vera o falsa.

A   B   2   5

Perché il problema è interessante

All’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso imperava, tra gli studiosi dell’intelligenza, la teoria dello svizzero Jean Piaget. Egli aveva studiato soprattutto lo sviluppo dell’intelligenza descrivendo le varie fasi di maturazione delle capacità intellettive, dal bambino fino all’adulto. Secondo Piaget, un adulto dovrebbe essere capace di accertarsi della verità o della falsità di un’ipotesi condizionale. Più precisamente, dovrebbe essere capace di indicare quegli stati di cose che potrebbero dimostrare che un’affermazione condizionale è falsa. In effetti, se dico: “Se piove, prendo l’ombrello”, si capisce che qualcosa non va se esco sotto la pioggia senza ombrello. La teoria di Piaget coincide dunque con il buonsenso. A prima vista sembrerebbe che sia facile capire in quali scenari la mia affermazione “Se piove, prendo l’ombrello” potrebbe essere falsa. Lo è quando piove, ed io non prendo l’ombrello. Semplice, a prima vista.
Potete provare con qualsiasi frase:
Se Paolo vede una polpetta, la mangia
Se Vittorio vede una polpetta, la ignora

Chi deve mangiare la polpetta o ignorarla secondo queste due frasi? Ovvio. Talmente ovvio che nessuno aveva mai provato a inventare un test delle capacità di pensiero simile a quello di Peter Wason. E tuttavia, se le persone fossero sempre capaci di individuare ciò che potrebbe rendere falsa e ciò che potrebbe rendere vera un’affermazione condizionale, la prova di Peter Wason non avrebbe dovuto creare problemi a nessuno. Insomma, le persone avrebbero dovuto scegliere la carta con la A e quella con il 5. Si tratta della combinazione che rende falso il condizionale:
Se c’è una A su un lato della carta, allora c’è un 2 sull’altro lato

Infatti, se dietro la A ci fosse il 5 il condizionale sarebbe falso. E, se dietro il 5 ci fosse una A, il condizionale sarebbe parimenti falso. Non è necessario scegliere le altre due carte. Nessuna di esse potrebbe essere un controesempio della regola, dimostrarne cioè la falsità. Queste scelte sono quelle che le persone, secondo Piaget, avrebbero dovuto fare. E tuttavia la maggioranza delle persone interpellate non le faceva. Le risposte tipiche erano la carta con la A e la carta con il 2, oppure solo la carta con la A (e voi, come avreste risposto?).

La scoperta di Wason, un po’ alla volta, si diffuse tra gli psicologi e iniziò quell’opera di demolizione della teoria di Piaget, di cui lui non era poi il solo responsabile. Da duemila anni, infatti, la maggioranza degli studiosi pensava che la razionalità degli adulti coincidesse con la capacità di pensare secondo le regole della logica. Piaget non faceva altro che continuare questa tradizione. Nessuno lo aveva mai messo in dubbio. Anzi, nessuno aveva neppure provato a metterla in dubbio. Peter Wason provò, e riuscì.

Dagli anni Sessanta del secolo scorso sappiamo che la logica ha ben poco a che fare con i modi di pensare delle persone comuni. In psicologia, tuttavia, i risultati negativi non sono mai così istruttivi. Dimostrare che non riusciamo a fare una cosa che, secondo Piaget, avrebbe dovuto essere facile, non ci fa avanzare molto. E’ abbastanza comprensibile che, per vari motivi, sia difficile risolvere alcuni problemi. Molto più istruttivo è il confronto tra le condizioni in cui non riusciamo a fare qualcosa e quelle in cui riusciamo a fare la stessa cosa, o qualcosa di analogo. Questa differenza, lo scarto cioè tra capacità e incapacità di fronte a problemi analoghi, è la chiave per capire come funzionano i meccanismi del pensiero. Perché in quel caso sì, e in quell’altro no? La psicologia funziona così. Vive di dettagli, come d’altronde la nostra esistenza (anche quella delle aziende e dei prodotti).

Alice Munro, venerata dagli psicologi del pensiero perché considerata la regina del dettaglio (cfr. i miei pezzi su Repubblica), scrive la sua prima storia cambiando la Sirenetta di Andersen. Nella versione della dodicenne Munro, la Sirenetta, pur tra atroci sofferenze, impara a camminare: “Non mi preoccupavo del fatto che il resto del mondo non conoscesse mai la versione nuova, perché, dopo averla pensata, mi sembrava che esistesse comunque” (Repubblica, 11/12/2013, in occasione del Nobel). Fantastico. Pura psicologia del pensiero.

La prima volta che feci il compito di selezione sbagliai. Quello che pensai, subito dopo, fu forse simile a quello che viene in mente a chiunque abbia scelto le carte A e 2. Come non accorgersi che scegliere il 2 è inutile, mentre non si sarebbe dovuto tralasciare il 3? In effetti, a ben vedere, perché scegliamo la carta con A? Perché se dietro, invece di un 2, c’è un 3, la regola è falsa. E allora come mai dimentichiamo di scegliere il 3? Se dietro il 3 c’è una A, la regola è parimenti falsa. Anzi, potrebbe essere la stessa carta una volta girata da un lato, e l’altra volta girata dall’altro lato!

La mia idea era che la cecità fosse dovuta al fatto che la regola era calata dall’alto. Una sorta di rompicapo che ci mette alla prova e ci intimorisce. Di primo acchito, non capiamo bene il senso di quella regola, a meno di non considerare il tutto come un gioco da Settimana Enigmistica. Ora gli psicologi del pensiero usano questi rompicapo un po’ assurdi – gli stessi impiegati nei test d’intelligenza - non perché siano sadici, o per intimorire e mettere a disagio. Devono farlo per ragioni metodologiche, per mettere tutti sullo stesso piano. Vanno quindi impiegati dei test che nulla hanno a che fare con la vita, proprio per annullare il ruolo dell’esperienza passata di chi partecipa all’esperimento. Le esperienze passate dei partecipanti potrebbero essere diverse, e quindi i partecipanti potrebbero non trovarsi su un piede di parità. E quindi, anch’io, non pensavo di modificare il materiale astratto e, diciamolo pure, un po’ astruso. Supponevo di dover continuare a usare numeri o disegni. Provai invece a cambiare il modo con cui si arriva la regola. La mia idea era che la persona formulasse personalmente la regola con cui poi doveva cercare di risolvere il problema, quando gliel’avessi presentato con la “sua” regola.

Questa idea mi era venuta perché ricordavo le mie esperienze alle scuole elementari. Durante gli anni dell’università, avevo insegnato alle magistrali e mi offrivo sempre volontario per i tirocini, dove le future maestre si impratichivano a interagire con i bambini. Ebbene, gli allievi di quell’età si allenano a ragionare solo se incuriositi dai giochi. Quanto più sono loro a stabilire le regole del gioco, anzi a trovarle, tanto più si appassionano, e tanto più abili diventano.

Costruii un mazzo di carte. Maria Sonino, la sperimentatrice, le presentava alle persone. Diceva loro se ogni carta seguiva, oppure no, una regola che loro avrebbero poi dovuto formulare. Per fare questo dovetti modificare un po’ le carte rispetto a quelle originali usate da Peter Wason. Feci dei cartoncini su cui erano disegnate due figure, un triangolo e un cerchio. Le due figure erano collocate, una a fianco dell’altra, sul lato visibile del cartoncino.

In sostanza, c’era un mazzo composto di quaranta carte con quattro tipi di disegni: con due cerchi, con due triangoli, con un triangolo a sinistra e un cerchio a destra, e, infine, con un cerchio a sinistra e un triangolo a destra. Maria Sonino teneva in una mano il mazzo di carte. Lentamente, con l’altra mano, le faceva scorrere mostrandole a colei/colui che partecipava all’esperimento. E ogni volta diceva, come in una giaculatoria: “questa segue la regola, questa segue la regola, questa non segue la regola, questa segue la regola …, “ e così via. Le sole carte che non seguivano la regola erano quelle con il cerchio a sinistra e con il triangolo a destra. Quando il partecipante era convinto di aver individuato la regola, a forza di casi positivi (molti) e negativi (pochi), la scriveva su un foglio di carta.

Già i risultati di questa prima fase dell’esperimento furono interessanti. Scoprii che non è naturale e spontaneo usare il condizionale per descrivere questo stato di cose. L’espressione più usata era una semplice descrizione:

Due figure uguali, se differenti il triangolo a sinistra e il cerchio a destra.

O anche la seguente descrizione:

Due cerchi, due triangoli, un triangolo a sinistra e un cerchio a destra.

La maggioranza delle trenta persone descriveva solo le situazioni che seguivano la regola usando espressioni disgiuntive e congiuntive. Solo tre persone si espressero in termini negativi, escludendo il caso che non seguiva la regola:

Non c’è un cerchio a sinistra e un triangolo a destra.

Un risultato importante perché mostra quello che era stato intuito da Wason, e che poi Johnson-Laird avrebbe sviluppato nella teoria dei modelli mentali. L’architrave di questa teoria è il principio di verità. In sintesi: alle persone interessa ciò che è vero. Di conseguenza noi ci rappresentiamo il mondo previlegiando ciò che è vero, e tralasciando ciò che è falso. Questo, è il motivo, secondo Johnson-Laird, per cui le persone falliscono nei due compiti di Wason e in tante altre prove. Come aveva detto Peter Wason (1968, p. 145):

Il bisogno di dimostrare la “verità” dell’affermazione ha finito col prevalere sull’istruzione impartita per dimostrarne la falsità. Questa palese predisposizione alla verifica è analoga alla tendenza emersa con il problema 2 – 4 - 6.Queste parole di Peter Wason spiegano l’essenza del modo di pensare dei vostri clienti. Loro si domandano e vogliono sapere da voi quel che è vero, e quel che accadrà. E tuttavia, nella teoria del portafoglio, è altrettanto importante tener conto di quel che non accadrà. E’ la differenza tra previsioni che si avverano e previsioni che non si avverano. Questa differenza viene annullata da una buona diversificazione. La premessa per capire il senso di una buona diversificazione sta nelle domande:

E se le cose non stessero così?
E se non andassero come penso?
Come potrei sapere se ho torto?


Pochi capiscono il senso di queste domande, e pochi quindi diversificano. Se un consulente vuole capire perché ciò accade, e perché non è facile la relazione cliente/consulente, è forse consigliabile che conosca i punti che tratterò nelle prossime lezioni.

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