mercoledì 26 novembre 2014

Laboratorio Swiss & Global - Lezione N. 107 – Racconti e prime impressioni



Uno dei problemi rilevanti per il mondo dei consulenti – di cui ho già parlato nella lezione 105, riferendomi alle emozioni - è legato al tempo, e, più precisamente, al contrasto tra l’immediato e il medio-lungo termine.

E’ un problema su cui torna spesso Robert Shiller, che ora è Sterling Professor of Economics a Yale (cfr., per esempio, in rete “When a Stock Market Theory Is Contagious”, Nyt, 18 ottobre 2014 ). Shiller parte spesso da un’ovvietà: i mercati azionari e obbligazionari presentano regolarità che possono servire come basi per le previsioni, ma solo a lungo termine (lunghissimo, almeno dal punto di vista del senso comune). Ora, se siete consulenti, i vostri clienti sono al contrario preoccupati dal breve termine. L’altro problema che avete come consulenti è che le persone le conoscete sul lungo termine, ed è sui tempi lunghi che si costruisce la fiducia. Purtroppo, ma anche per sua fortuna (!), il consulente non ha solo clienti che conosce da lungo tempo. Egli incontra anche dei clienti “nuovi”, che devono farsi un’impressione del consulente, e viceversa. In entrambi questi casi non si può insomma aspettare lunghi intervalli temporali. Che cosa succede sul breve termine? Sui tempi corti, quelli che funzionano sono i “racconti credibili e contagiosi”, come dice Shiller.
In questa lezione presenterò due esempi di questo tipo di racconti. Un racconto che concerne l’immagine dei consulenti, dato che il cliente si farà di voi una “prima impressione”, e un altro racconto che concerne i mercati. Partirò da quest’ultimo.
Oggi i racconti vanno di moda rispetto ai modelli matematici di un tempo, come ricorda Paul Krugman in occasione del premio Nobel a Jean Tirole: “In sostanza la scuola di Tirole ha reso possibile raccontare storie invece di dimostrare teoremi, e questo a sua volta ha reso possibile affrontare e modellizzare problemi che non rientrano nei confini della concorrenza perfetta”. (Sole24Ore , 26 ottobre 2014, p. 23).
Quale, di questi tempi, il racconto più credibile e contagioso per quanto concerne l’interpretazione di quel che succede sui mercati? Il racconto più spesso evocato nasce con una storia narrata la prima volta (l’8 novembre dell’anno scorso a Washington, per la precisione), da Lawrence Summers, l’ex segretario del tesoro statunitense, presidente dell’università di Harvard. Come per tutte le storie che funzionano, Summers ha trovato un bel titolo: ”stagnazione secolare”. Se volete rendervi conto del successo dell’etichetta, cercate “secular stagnation” su Google Trends. Questa storia si compone di due capitoli e di una conclusione.
Il primo capitolo è “global slow-down”, e cioè rallentamento globale. Il secondo capitolo è “deflation”, cioè deflazione, la conclusione è: pessimismo. Secondo Shiller sono queste le paure contagiose che spiegano come mai i mercati siano scesi in modo brusco nella settimana centrale di Settembre 2014, per poi riprendersi. Non è, secondo Shiller, una teoria che abbia grandi basi accademiche o empiriche. Appartiene forse più allo sportello mentale delle “emozioni”, che non a quello delle “spiegazioni razionali”. In questa chiave narrativa ed emotiva, si può forse invocare il rallentamento dei consumi, via via che si ottiene la prosperità (una vecchia idea di Keynes). Inoltre si possono ricordare altri due fattori: l’invecchiamento delle popolazioni occidentali, che frena la crescita, e la mancanza d’innovazioni tecnologiche radicali, dopo la rivoluzione dell’ICT.
E tuttavia il punto centrale della questione è un altro, e cioè la disponibilità cognitiva e, soprattutto, emotiva, di una spiegazione semplice basata su una storia, e quindi immediatamente intuitiva.
Un meccanismo analogo sta dietro a un fenomeno molto diverso: e cioè i tempi brevi sufficienti per formarsi un’impressione di un’altra persona, appena la abbiamo incontrata.
Che cosa succede quando incontriamo per la prima volta una persona che potrebbe diventare nostro cliente? Come possiamo farcene un’idea? Dobbiamo fidarci della prima impressione? Molte volte mi sono state fatte queste domande, anche se questo non è uno scenario che capita soltanto ai consulenti a cui sono stati affidati i risparmi. Tant’è vero che la situazione è stata descritta anche dai narratori, prima che gli psicologi studiassero sistematicamente il problema. Ecco la scrittrice canadese Alice Munro:
Mi ero detta, Chi è quest’uomo? Ha un’aria di famiglia. Un uomo che si muove con agilità, come se non avesse il minimo problema a calarsi in un pozzo e a risalirne. Capelli a spazzola, brizzolati, occhi chiari, infossati. Viso magro, espressione austera, ma cordiale. Un’abituale riservatezza, non sgradevole …
Quante volte nei romanzi troviamo situazioni di questo tipo: una persona ne incontra un’altra, e si forma subito un’impressione. Il passo sopra riportato è in Ortiche di Alice Munro (Einaudi, 2003, p. 61), quando la protagonista riconosce un amico d’infanzia, dopo averlo scambiato per suo padre. Altre volte questo riconoscimento è impossibile, come nel recente film Her di Spike Jonze (2013), dove il protagonista si innamora di una Lei immaginata grazie a un sistema operativo che parla attraverso il suo telefono, o nel classico Il cavaliere inesistente di Italo Calvino (1991). In questi casi non è possibile farsi un’impressione immediata e completa dell’interlocutore, semplicemente perché è senza corpo. Ha solo una voce, il resto non c’è, e di questa mancanza poi, nel corso della storia, si vedono le conseguenze. Ciò non toglie che il cavaliere inesistente sia il migliore ufficiale, tra le truppe di Carlo Magno, e che di Her, premurevole assistente, ci si possa innamorare. Quanto più una persona, soprattutto se è sola, desidera avere contatti sociali, tanto più attribuisce un’anima a entità che ne sono prive (Legrenzi e Umiltà, 2014, Powers, et al., 2014).
All’estremo opposto, nei casi in cui vediamo solo il corpo, ma non il viso di una persona appena incontrata, possiamo comunque farci un’idea della persona, per esempio dal suo modo di camminare. Ecco un passo dello scrittore inglese Le Carré (2001, p. 361):
All’improvviso Bradshaw prese a camminare verso di me. O a incedere? O ad arrancare? C’è oggi un’andatura inglese, propria degli uomini di potere, che è un insieme di più cose. Una di queste è la sicurezza di sé, un’altra una pigra giovialità. Ma contiene anche minaccia e impazienza e una tranquilla arroganza che si esprime nell’allargare i gomiti come le chele di un granchio senza cedere il passo a nessuno, nel curvare le spalle come i giudici e nella gioiosa elasticità delle ginocchia.
Quello che accomuna i casi del cavaliere inesistente, dell’assistente Her e del potente commerciante d’armi Bradshaw è la possibilità d’inferire molto da poco, come se fosse agevole “andare oltre l’informazione data”, per usare il titolo di un classico libro di Jerome Bruner (1973).
Ora, malgrado l’assenza del corpo o la visione del solo incedere di un nuovo arrivato, siamo in grado di attribuire in modo spontaneo e immediato una personalità ai tre personaggi. L’attribuzione avviene grazie a un processo mentale che non ci è trasparente. E tuttavia, anche se non sappiamo bene come, presumiamo, nella quotidianità delle relazioni sociali, di saper ricavare il tutto da una parte.
La non trasparenza a noi stessi e agli altri di tali inferenze caratterizza quella che è stata chiamata conoscenza tacita o implicita. Le forme di conoscenza tacita non sono facilmente descrivibili, se non per via analogica o tramite esempi, come nel caso del modo di camminare di Bradshaw, o del personaggio di Alice Munro. Proprio perché la conoscenza tacita è difficile da rendere esplicita, per trasmetterla ad altri, è impresa ardua scrivere un manuale del “buon consulente”, mentre la pratica è vitale. Per questo motivo io mi avvalgo spesso di esempi e di casi.
Nelle prossime lezioni cercheremo di analizzare le funzioni della conoscenza tacita nella vita quotidiana nei contesti in cui, per esempio, un consulente incontra un potenziale cliente.

A differenza degli esempi sopra citati, per solito, nella vita quotidiana, le persone che incontriamo hanno un viso, ed è stupefacente quanto rapidamente ce ne facciamo un’impressione, anche se non le abbiamo mai incontrate prima. Questa situazione è un esempio paradigmatico di un sapere sociale implicito, che cela molte operazioni complesse, così naturali e spontanee da non porre apparentemente alcun problema. Se però ci s’interroga su di esse, nascono questioni interessanti. Solo recentemente la ricerca ha iniziato a dare risposte. Queste risposte toccano da vicino i problemi delle relazioni tra i consulenti e i nuovi clienti. In effetti, è soprattutto all’inizio di una relazione che un consulente non sa ancora bene di chi è veramente consulente. Deve fare il bene del portafoglio che gli è stato affidato, o deve anche accontentare il proprietario, o i proprietari, dei risparmi, o, forse ancora, un miscuglio delle due cose? A prima vista sembrerebbe che le due esigenze dovrebbero coincidere. Ma nella realtà della vita, come abbiamo detto più volte, non sempre le cose stanno così, perché i clienti, soprattutto se “rigidi”, si affidano a un consulente, ma non sempre si “fidano”, e continuano ad avere le loro idee e preferenze.

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