mercoledì 6 febbraio 2013

Laboratorio Swiss & Global - Lezione N. 21 – Punti di svolta

Ora che il 2012 è finito, cerchiamo di fare un bilancio non solo dell’ultimo anno, ma del decennio, e persino del trentennio. Per quanto concerne gli stati d’animo diffusi, va detto che non si era mai visito tanto pessimismo in giro come nello scorso anno, per lo meno nei confronti delle azioni e, più in generale, dell’andamento dell’economia e dei rischi associati a tale andamento (anche in Italia, purtroppo, il clima è improntato al pessimismo, cfr. il sondaggio a p. 9 di Plus, IlSole24Ore 5.1.2013).

In Germania e negli Stati Uniti, la maggioranza dei titoli obbligazionari graditi dal pubblico, e acquistati dai risparmiatori, non riesce neppure a coprire l’inflazione (eppure costituivano la maggioranza dei portafogli!). E non è un fenomeno di breve periodo. Il 30.12.2011 i rendimenti dei governativi tedeschi erano del -0,036 a un anno, e del 0,157 a due anni. Un anno dopo, il 2.1.2013, i valori corrispondenti erano: -0,007 e 0,028. Neppure i titoli a tre e cinque anni coprono l’inflazione attuale che si aggira intorno al 3% (cfr. IlSole24Ore 3.1.2013, p.4). Quando una persona, che è stata posta di fronte all’incertezza, e poi si è sentita molto scottata dagli eventi negativi, dopo aver patito cercherà ad ogni costo la sicurezza, in modo da evitare di ricadere in simili condizioni e stati d’animo. Questo spiega la preferenza per titoli governativi super-sicuri, con una scadenza certa e quindi un traguardo rassicurante, anche se questi titoli rendono indubbiamente meno dell’inflazione. Si tratta d’investimenti che distruggono, per così dire, parte del risparmio cumulato in passato. L’analisi del meccanismo psicologico che conduce a queste scelte, una sorta di auto-inganno, almeno dal punto di vista della razionalità economica, è stata fatta in dettaglio nella lezione n° 20 del 24 gennaio.

In termini di rendimenti reali, la situazione ricorda il 1981, più di trent’anni fa, negli Stati Uniti. Anche allora c’era molto pessimismo in giro, soprattutto nei confronti delle azioni (che da allora ebbero poi un ventennio d’oro), e quell’anno era stato il picco più basso del mercato orso statunitense delle obbligazioni. Il rendimento di un titolo governativo USA trentennale, emesso nel 1970 con scadenza nel 2000, era, il 26 ottobre 1981, del 15,21%. Il titolo in questione quotava meno del 56% della parità (la sua cedola fissa era del 7,875%). Quello è stato il punto di svolta. Non fu percepito subito, perché il pessimismo di allora induceva a pensare che l’inflazione sarebbe rimasta a lungo con valori a due cifre (nei terribili anni 70, l’inflazione media dei paesi sviluppati raggiunse il 15%, e rimase a lungo a due cifre). Il pessimismo di oggi è rivolto, soprattutto, agli investimenti in azioni (che, peraltro danno spesso dividendi più alti delle cedole dei governativi supersicuri; cfr. i dati delle preferenze degli italiani nel sondaggio di Plus sopra citato, e il big switch dei fondi pensione britannici nella lezione n°18 di giovedì 10/1).

Se un risparmiatore avesse puntato nel 1981 sui titoli governativi statunitensi o britannici, egli avrebbe ottenuto un rendimento superiore al 5% dell’inflazione di questi due paesi per i successivi trent’anni, cioè fino ai tempi attuali, quelli in cui, purtroppo, il ciclo è definitivamente terminato. Oggi siamo di nuovo a un punto di svolta: i titoli governativi supersicuri non coprono neppure l’inflazione.

L’esame del passato ci insegna che è difficile percepire i momenti in cui iniziano queste svolte. La vita ci scorre di fronte agli occhi, e la società dell’informazione ci segnala, magari sbandierandoli, piccoli cambiamenti, quelli di ogni giorno o, al massimo, della settimana. I media vogliono “aggiornarci” con notizie fresche, non annoiarci con statistiche pluridecennali. Il punto di svolta è affogato nella quotidianità, e questo vale per la politica, la storia, e anche per i mercati finanziari. Per esempio, per limitarsi ai tempi recenti, l’inizio del 2009, in piena crisi (e paura, se non panico), sarebbe stato il punto di svolta per “mettersi in azione”, per usare il gioco di parole con cui si chiude l’ultimo supplemento Plus del Sole24Ore (29.12.12).

Nelle previsioni di fine 2012 Laszlo Birinyi, il presidente della Birinyi Associati, sostiene che nel 2013 avremo un altro punto di svolta:

“Siamo all’inizio di un mercato toro, come nel 1982 e nel 1992: i mercati resteranno forti per quattro/cinque anni, anche se alla fine del 2012 pochi se ne sono ancora accorti. E tuttavia, nel corso del 2013, ci sarà un punto di svolta: i piccoli risparmiatori torneranno gradatamente sulle azioni, dopo esserne usciti negli ultimi quattro anni ($ 275 miliardi usciti dai fondi azionari negli ultimi quattro anni). Alla fine del 2012, abbiamo ancora bassi rapporti p/e (prezzi/utili) e le prime timide avvisaglie di un mutato atteggiamento da parte degli investitori. La probabilità d’incrementi futuri dei mercati azionari è alta”.
Tutti cercano di prevedere i punti di svolta, ma in realtà questi si rivelano tali solo a posteriori: Birinyi, ottimista, aveva già previsto nel corso del 2012, per ben due volte, lo sfondamento, mai avvenuto, della soglia di 1.500 punti da parte di S&P500 (il 3.1.2013 è a 1.462). Se e quando le sue previsioni per il 2013 si sveleranno come veritiere, ci si dimenticherà di quelle troppo ottimistiche del passato.
Ci si dimentica anche delle previsioni pessimistiche. Un buon esempio è proprio quanto è successo nel 2012, come ricorda nel suo pezzo di fine anno Floyd Norris (New York Times, 31-12-2012):
“Un anno fa, alcuni pensavano che il 2012 sarebbe stato l’anno in cui sarebbe saltata l’eurozona, i più che almeno un paese avrebbe abbandonato l’euro. Non è successo. Le banche, che sembravano il peggior investimento, dato il loro indebitamento, si sono rivelate la scelta migliore e, più in generale, i mercati azionari europei sono saliti in media più di quelli statunitensi. Sono state le scelte dei politici e dei banchieri centrali a dominare la scena …”
Questi esempi, basati sulle previsioni di singoli, e noti, opinionisti, non devono mai farci dimenticare che le migliori previsioni sono quelle che si fanno aggregando le stime dei singoli operatori, esperti o sondaggisti. Questo vale in molti campi: dalle previsioni politiche a quelle economiche, dalle sportive a quelle meteorologiche. Le previsioni meteorologiche hanno molti punti in comune con quelle finanziarie. La competizione tra operatori indipendenti, e quindi il fatto che siano disponibili più fonti che si possono aggregare, ci permette di fare una media delle previsioni dopo averle aggregate. E sappiamo che la media tende a essere più accurata della maggioranza delle previsioni di ciascun singolo operatore. Se poi la previsione è rivolta al grande pubblico, ed esce sui media, quel che conta, come in finanza, è la percezione dell’accuratezza, non l’accuratezza di per sé. Quando i dati e il modello predicono 50% delle probabilità che faccia bello, e 50% che faccia brutto, 50% che un mercato salga, e 50% che scenda, la previsione comunicata al pubblico tende spesso a favorire un poco una delle due ipotesi equiprobabili. Chi fa le previsioni evita il 50-50 perché sa che il 50-50 può venir percepito dai più come ammettere che non si sa (come tirare una moneta e far decidere il caso; in realtà non sapere veramente equivale a dire che non si sa neppure se sarà 50%-50%, ma le intuizioni delle persone non funzionano così, cfr. Nate Silver, The Signal and the Noise, Penguin, 2012 pp. 131-133). E allora, se l’esperto non sa, che cosa ce ne facciamo delle previsioni?

Nessun commento:

Posta un commento