domenica 17 giugno 2018

MERCATI FINANZIARI AL 16/6/2018





EFFETTO BANCHE CENTRALI
 
Avevamo lasciato i mercati in preda a forti frenesie ribassiste (stiamo parlando della seconda metà di maggio) in parte dissolte in queste prime due settimane
di giugno, il che significa essere a un passo dal consuntivo del primo semestre del 2018.

Iniziamo pertanto con il fare il punto della situazione partendo dai risultati da inizio anno ad ora e il grafico d’apertura mi sembra piuttosto emblematico; fatta eccezione per la Svizzera (-7,90%) e la Gran Bretagna (in  misura marginale) tutte le borse dei paesi occidentali sono in positivo, con il Nasdaq una spanna sopra tutti. Migliore borsa sino ad oggi - con rendimenti a due cifre (12,20%) - e nuovo record assoluto proprio nella settimana appena conclusasi. Seguono, con performance molto meno brillanti, lo S&P 500 e la borsa parigina.

Sostanzialmente piatte la borsa di Francoforte e l’indice Eurostoxx. Spostandoci in Asia, dopo settimane di saliscendi Tokyo si assesta su una sostanziale parità mentre positive restano Hong Kong e l’India, secondo mercato per rendimenti, almeno sino ad ora. Decisamente negativa la borsa di Shangai, in negativo per oltre l’8% e buona compagnia (si fa per dire) le fa da alcune la borsa carioca (-7,39%). A chiudere, l’ultimo dei Bric, la Russia, a -3,24%.

Le risultanze della scorsa settimana sono sostanzialmente la fotocopia di questa sintesi.

Le eccezioni sono date dal mercato svizzero che chiude la tornata settimanale in positivo (+1,50%) e Hong Kong che, all’incontrario del consuntivo da inizio anno, si lascia alle spalle una settimana poco brillante con un calo di oltre due punti percentuali.

In effetti la scorsa settimana ha tenuto un po’ tutti con il fiato sospeso. Aumento dei tassi da parte della Fed, esplicitazioni di prossima chiusura del QE in Europa ma a tenere banco sono state le voci sulla volontà di Trump di avviare la campagna di introduzione dei dazi doganali a cui la Cina ha risposto non facendo spallucce ma esplicitando che a questa manovra risponderà nello stesso modo introducendo una lunga serie di dazi sulle merci di importazione nordamericana. Resta ancora defilata la posizione di Trump sulla comunità economica europea a cui faranno seguito le azioni ritorsive dei paesi europei coinvolti. Il Regno Unito resta al momento defilato, e non se ne parla tranne che per gli effetti della Brexit prossimi a venire.


Al di là delle aspettative dei vari protagonisti in questa vicenda, ossia chi spera di trarre benefici per la propria economia o chi all’opposto resta convinto che si tratti di una bolla di sapone, una guerra dei dazi – se effettivamente iniziasse – non potrebbe che arrecare danni agli scambi internazionali e alla produzione mondiale nel suo complesso, a maggior ragione in una fase piuttosto fragile dato che i bilanci governativi sono ancora alle corde per le manovre di supporto di questi anni e troppo deboli per supportare senza contraccolpi economie vacillanti e nuove potenziali crisi finanziarie.

Ai primi di luglio ne sapremo di più ma saremo già in pieno periodo balneare e i timori di uno stop o di un rallentamento della crescita mondiale potrebbero innescare forti prese di beneficio e surriscaldare fortemente i mercati. Auguriamoci dunque che prevalga il buon senso e, soprattutto, i tavoli negoziali piuttosto che le azioni muscolari.

 

BANCHE CENTRALI E TASSI D’INTERESSE

 

Iniziamo dalle decisioni della Fed la quale ha alzato i tassi di interesse di un quarto di punto. Il costo del denaro sale collocandosi in una forchetta racchiusa fra l’1,75% e il 2%. Si tratta della seconda stretta monetaria effettuata dal neo governatore Jerome Powell (nonché la settima dal 2015) e a quanto parrebbe altre due seguiranno entro la fine dell’anno. Le stime di crescita sono in rialzo, l’inflazione pure e dunque …

Se la Fed ha agito la Bce non è stata certo passiva. A parole, per il momento, ma si è trattato di parole pesanti. Per il momento il QE prosegue, al ritmo di 30 miliardi di Euro al mese sino alla fine di settembre. Dopo quella data Draghi ha lasciato intendere che il ritmo degli acquisti scenderà a 15, 10 e infine 5 miliardi di mese in mese sino alla fine dell’anno (salvo diverse manovre “necessarie”). Da gennaio stop agli acquisti.

E’ presumibile che aumenti di tassi in area euro non se ne vedano per tutto il primo semestre del 2019 e che per quella data il tasso dei deposit facilities possa essere pari a zero. Rammentando che prima della fine dell’anno venturo Mario Draghi lascerà la poltrona del comando della BCE possiamo presumere che verso fine 2019 abbia effettivamente inizio il processo verso la normalità dei tassi anche nell’area euro.

La fine del QE non sta a significare che la deflazione è sconfitta definitivamente ma che la crescita non ha più bisogno di stampelle.

Quali gli effetti sul mercato di queste decisioni? Vediamo innanzitutto i tassi di interesse dei titoli governativi decennali.
 
 

 

Negli Usa i tassi sono leggermente risaliti verso quota 3%, mentre in Europa i titoli del nostro paniere sono tutti scesi, in particolar modo quelli italiani che in una sola settimana passano dal 3,12 al 2,62% e lo spread si sgonfia a sua volta scendendo a quota 221,80 da 266,30 toccati alla fine della settimana precedente.
 
L’EFFETTO DELLE DECISIONI DELLE BANCHE CENTRALI SUI CAMBI
La reazione alle decisioni di Fed e Bce sul mercato valutario c’è stata e in modo evidente. L’euro si è afflosciato dopo alcune sedute di contenuta risalita. Sul dollaro il cambio è passato da 1,1766 a 1,1607 e da inizio anno la perdita di valore sul biglietto verde è arrivata a -3,50% ma, dai massimi di inizio febbraio, la perdita sfiora il 7%.

Stessa sorte per il cambio euro-yen che da inizio anno registra una perdita del 5% a favore della moneta nipponica e dello stesso segno il rapporto fra euro e yuan cinese.


Ciò che resta da vedere ora, al di là delle immediate decisioni delle banche centrali, gli effetti sul commercio internazionale dei dazi annunciati; le piogge (finanziarie) estive non sono certo le benvenute ma se qualcosa andasse storto ci troveremmo ad affrontare veri e propri tifoni.

 

MATERIE PRIME

 
Per il momento mi limito a un’osservazione. Da inizio anno il petrolio è passato dai 60 dollari al barile della prima settimana di gennaio agli attuali 66,50; si tratta di un balzo di quasi l’11%, una crescita piuttosto robusta i cui effetti si sono riverberati non solo sul prezzo dei carburanti in modo diretto ma a caduta sia sulla filiera produttiva complessiva (che in quanto tale consuma energia) e su tutta la struttura dei trasporti. Vediamo il grafico del Wti.


Vediamo ora l’indice generale delle materie prime, ossia l’indice che le comprende tutte (derrate agricole, metalli, gas, petrolio, ecc.):

Orbene, se l’indice generale da inizio 2018 è salito di un misero 1% e sapendo che il settore energetico pesa moltissimo sull’indice globale, è lecito pensare che, largo circa, tutte le altre commodities abbiano mediamente perso di valore in questi sei mesi. Per la ben nota legge della domanda e dell’offerta ciò sta a significare che la domanda di materie prime è in discesa e sappiamo perfettamente che le materie prime servono a produrre tutti quei beni che costituiscono l’offerta globale. Dunque, se la domanda di materie prime è regredita, ciò sta a significare che tendenzialmente si produce di meno e allora sorge spontanea la seguente domanda:
 
“Se la domanda di beni sta calando che senso avrà introdurre dazi all’importazione se non quella di frenare il commercio internazionale e i consumi globali?”

Non posso che pensare - di conseguenza – che ciò equivarrebbe a far piovere sul bagnato, ossia tempo perso e danni all’agricoltura. Non è che l’introduzione di questi nuovi dazi ci farà solo del male?
 
Nei prossimi mesi conosceremo la vera risposta.

 


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