EFFETTO
BANCHE CENTRALI
Avevamo
lasciato i mercati in preda a forti frenesie ribassiste (stiamo parlando della
seconda metà di maggio) in parte dissolte in queste prime due settimane
di
giugno, il che significa essere a un passo dal consuntivo del primo semestre
del 2018.
Vediamo ora l’indice generale delle materie prime, ossia l’indice che le comprende tutte (derrate agricole, metalli, gas, petrolio, ecc.):
Nei prossimi mesi conosceremo
la vera risposta.
Iniziamo
pertanto con il fare il punto della situazione partendo dai risultati da inizio
anno ad ora e il grafico d’apertura mi sembra piuttosto emblematico; fatta
eccezione per la Svizzera (-7,90%) e la Gran Bretagna (in misura marginale) tutte le borse dei paesi
occidentali sono in positivo, con il Nasdaq una spanna sopra tutti. Migliore
borsa sino ad oggi - con rendimenti a due cifre (12,20%) - e nuovo record
assoluto proprio nella settimana appena conclusasi. Seguono, con performance
molto meno brillanti, lo S&P 500 e la borsa parigina.
Sostanzialmente
piatte la borsa di Francoforte e l’indice Eurostoxx. Spostandoci in Asia, dopo
settimane di saliscendi Tokyo si assesta su una sostanziale parità mentre positive
restano Hong Kong e l’India, secondo mercato per rendimenti, almeno sino ad
ora. Decisamente negativa la borsa di Shangai, in negativo per oltre l’8% e
buona compagnia (si fa per dire) le fa da alcune la borsa carioca (-7,39%). A
chiudere, l’ultimo dei Bric, la Russia, a -3,24%.
Le
risultanze della scorsa settimana sono sostanzialmente la fotocopia di questa
sintesi.
Le eccezioni
sono date dal mercato svizzero che chiude la tornata settimanale in positivo
(+1,50%) e Hong Kong che, all’incontrario del consuntivo da inizio anno, si
lascia alle spalle una settimana poco brillante con un calo di oltre due punti
percentuali.
In effetti
la scorsa settimana ha tenuto un po’ tutti con il fiato sospeso. Aumento dei
tassi da parte della Fed, esplicitazioni di prossima chiusura del QE in Europa
ma a tenere banco sono state le voci sulla volontà di Trump di avviare la
campagna di introduzione dei dazi doganali a cui la Cina ha risposto non
facendo spallucce ma esplicitando che a questa manovra risponderà nello stesso
modo introducendo una lunga serie di dazi sulle merci di importazione
nordamericana. Resta ancora defilata la posizione di Trump sulla comunità
economica europea a cui faranno seguito le azioni ritorsive dei paesi europei coinvolti.
Il Regno Unito resta al momento defilato, e non se ne parla tranne che per gli
effetti della Brexit prossimi a venire.
Al di là delle
aspettative dei vari protagonisti in questa vicenda, ossia chi spera di trarre
benefici per la propria economia o chi all’opposto resta convinto che si tratti
di una bolla di sapone, una guerra dei dazi – se effettivamente iniziasse – non
potrebbe che arrecare danni agli scambi internazionali e alla produzione
mondiale nel suo complesso, a maggior ragione in una fase piuttosto fragile
dato che i bilanci governativi sono ancora alle corde per le manovre di
supporto di questi anni e troppo deboli per supportare senza contraccolpi
economie vacillanti e nuove potenziali crisi finanziarie.
Ai primi di
luglio ne sapremo di più ma saremo già in pieno periodo balneare e i timori di
uno stop o di un rallentamento della crescita mondiale potrebbero innescare
forti prese di beneficio e surriscaldare fortemente i mercati. Auguriamoci
dunque che prevalga il buon senso e, soprattutto, i tavoli negoziali piuttosto
che le azioni muscolari.
BANCHE
CENTRALI E TASSI D’INTERESSE
Iniziamo
dalle decisioni della Fed la quale ha alzato i tassi di interesse di un quarto
di punto. Il costo del denaro sale collocandosi in una forchetta racchiusa fra
l’1,75% e il 2%. Si tratta della seconda stretta monetaria effettuata dal neo
governatore Jerome Powell (nonché la settima dal 2015) e a quanto parrebbe
altre due seguiranno entro la fine dell’anno. Le stime di crescita sono in
rialzo, l’inflazione pure e dunque …
Se la Fed ha
agito la Bce non è stata certo passiva. A parole, per il momento, ma si è
trattato di parole pesanti. Per il momento il QE prosegue, al ritmo di 30
miliardi di Euro al mese sino alla fine di settembre. Dopo quella data Draghi
ha lasciato intendere che il ritmo degli acquisti scenderà a 15, 10 e infine 5
miliardi di mese in mese sino alla fine dell’anno (salvo diverse manovre
“necessarie”). Da gennaio stop agli acquisti.
E’
presumibile che aumenti di tassi in area euro non se ne vedano per tutto il
primo semestre del 2019 e che per quella data il tasso dei deposit facilities
possa essere pari a zero. Rammentando che prima della fine dell’anno venturo
Mario Draghi lascerà la poltrona del comando della BCE possiamo presumere che
verso fine 2019 abbia effettivamente inizio il processo verso la normalità dei
tassi anche nell’area euro.
La fine del
QE non sta a significare che la deflazione è sconfitta definitivamente ma che
la crescita non ha più bisogno di stampelle.
Quali gli
effetti sul mercato di queste decisioni? Vediamo innanzitutto i tassi di
interesse dei titoli governativi decennali.
Negli Usa i
tassi sono leggermente risaliti verso quota 3%, mentre in Europa i titoli del
nostro paniere sono tutti scesi, in particolar modo quelli italiani che in una
sola settimana passano dal 3,12 al 2,62% e lo spread si sgonfia a sua volta
scendendo a quota 221,80 da 266,30 toccati alla fine della settimana
precedente.
L’EFFETTO
DELLE DECISIONI DELLE BANCHE CENTRALI SUI CAMBI
La reazione
alle decisioni di Fed e Bce sul mercato valutario c’è stata e in modo evidente.
L’euro si è afflosciato dopo alcune sedute di contenuta risalita. Sul dollaro
il cambio è passato da 1,1766 a 1,1607 e da inizio anno la perdita di valore
sul biglietto verde è arrivata a -3,50% ma, dai massimi di inizio febbraio, la
perdita sfiora il 7%.
Stessa sorte per
il cambio euro-yen che da inizio anno registra una perdita del 5% a favore
della moneta nipponica e dello stesso segno il rapporto fra euro e yuan cinese.
Ciò che resta da
vedere ora, al di là delle immediate decisioni delle banche centrali, gli
effetti sul commercio internazionale dei dazi annunciati; le piogge (finanziarie)
estive non sono certo le benvenute ma se qualcosa andasse storto ci troveremmo
ad affrontare veri e propri tifoni.
MATERIE
PRIME
Per il momento
mi limito a un’osservazione. Da inizio anno il petrolio è passato dai 60
dollari al barile della prima settimana di gennaio agli attuali 66,50; si
tratta di un balzo di quasi l’11%, una crescita piuttosto robusta i cui effetti
si sono riverberati non solo sul prezzo dei carburanti in modo diretto ma a
caduta sia sulla filiera produttiva complessiva (che in quanto tale consuma
energia) e su tutta la struttura dei trasporti. Vediamo il grafico del Wti.
Vediamo ora l’indice generale delle materie prime, ossia l’indice che le comprende tutte (derrate agricole, metalli, gas, petrolio, ecc.):
Orbene, se l’indice generale
da inizio 2018 è salito di un misero 1% e sapendo che il settore energetico
pesa moltissimo sull’indice globale, è lecito pensare che, largo circa, tutte
le altre commodities abbiano mediamente perso di valore in questi sei mesi. Per
la ben nota legge della domanda e dell’offerta ciò sta a significare che la
domanda di materie prime è in discesa e sappiamo perfettamente che le materie
prime servono a produrre tutti quei beni che costituiscono l’offerta globale.
Dunque, se la domanda di materie prime è regredita, ciò sta a significare che
tendenzialmente si produce di meno e allora sorge spontanea la seguente domanda:
“Se la domanda di beni sta
calando che senso avrà introdurre dazi all’importazione se non quella di frenare
il commercio internazionale e i consumi globali?”
Non posso che pensare - di
conseguenza – che ciò equivarrebbe a far piovere sul bagnato, ossia tempo perso
e danni all’agricoltura. Non è che l’introduzione di questi nuovi dazi ci farà
solo del male?
Nessun commento:
Posta un commento