Se
la paura provoca tanti guai, come mai questo tipo di emozione non è stato
progressivamente eliminato a favore di altre emozioni? Per rispondere a questa
domanda è bene riflettere sulle funzioni di un’emozione come la paura.
Quando la paura si
manifesta sotto forma di “paura anticipatoria”, essa si basa su quel senso di
ansia e, poi, di sollievo che abbiamo provato in passato affrontando un rischio
impegnativo, e riuscendo poi a superarlo. Questo stato di cose permette di
renderci conto del pericolo che abbiamo corso, e di conseguenza la paura
provata contribuisce a evitare che in futuro si debbano affrontare pericoli
analoghi. Da questo punto di vista la paura è, per così dire, un ingrediente
dell’apprendimento che fissa in memoria le possibilità di pericolo. Ci insegna
così ad affrontarle e superarle e, possibilmente, anche a evitarle. In un mondo
abbastanza stabile e ripetitivo, quale era quello dei nostri antenati
cacciatori-raccoglitori e, poi, agricoltori stanziali, la paura faceva quindi
parte dei meccanismi di adattamento all’ambiente. Se noi non avessimo provato
paura, non ci saremmo adattati agli ambienti di vita e non saremmo sopravvissuti.
Nell’era di grandi
cambiamenti in cui oggi siamo immersi, la paura, invece, funziona meno bene. Se
il futuro non è per lo più una probabile ripetizione del passato, ma è aperto
all’incertezza e al cambiamento, la paura non serve più a farci evitare le
scelte pericolose. In questo nuovo mondo, meno ripetitivo e prevedibile, i
pericoli del passato non sempre sono utili per anticipare quelli che il futuro
ci potrà riservare, anzi i pericoli del passato possono essere fuorvianti.
Invece di temere i pericoli veri, abbiamo paura di quello che in passato ci ha
fatto paura. E se osserviamo con attenzione l’andamento della borsa principe, e
cioè i valori dal 1880 a oggi dell’indice S&P 500, possiamo vedere che non
ci siamo fatti mancare nulla! Paura e entusiasmo sono stati intrecciati con
quella linea che procede a sbalzi, e che non è indipendente dai grandi eventi
della storia economica e politica. Dai fallimenti delle banche e delle ferrovie
del 1893, alle guerre e alla grande depressione, fino alla crisi dei missili a
Cuba, alla guerra dello Yom Kippur e alla recente GFC, cioè la “crisi
finanziaria globale”.
Tenere sotto gli occhi una
tabella di lungo periodo, come la seguente, può esserci utile per evitare di
montarci la testa nei periodi di euforia e di angosciarci nei periodi di
depressione. Alla fine si torna sempre al fatidico rapporto di 16: 16 anni di
utili delle aziende corrispondono al valore delle aziende in borsa! E tuttavia
la regressione verso la media può richiedere molto tempo, un tempo più lungo di
quello che impedirebbe alla nostra vita di essere costellata di emozioni. La
tabella è “paurosa” nel senso che produce emozioni: rari sono i momenti in cui
i mercati esprimono la media storica e, a ben guardare, si tratta di momenti
transeunti.
Viviamo nel transeunte:
oggi molti hanno paura che la borsa statunitense, il cui andamento è correlato
a quello di molte altre borse, sia sopravvalutata. La tabella qui riportata
indica il valore dell’indice CAPE, cioè una media decennale degli utili per azione
rapportati ai prezzi (quanto la borsa è cara?), e il NIPA-CAPE, che corrisponde
agli utili dopo le tasse, ed è un indice più pulito e omogeneo per i confronti.
La tabella mostra bene che la paura qui non funziona come motore di
apprendimento: non c’è una regolarità che ci permetta di imparare dagli errori
del passato. Il dato oggettivo mostra oggi una sopravvalutazione rispetto alla
media storica, ma c’è da tenere presente che mai i tassi sono stati così bassi
per così lungo tempo e quindi non ci sono molte alternative per i
risparmiatori.
La tabella riporta, dal
1880 a oggi, il valore dell’indice CAPE, cioè una media decennale degli utili
per azione rapportati ai prezzi (quanto la borsa è cara?), e il valore
NIPA-CAPE (linea tratteggiata), che corrisponde agli utili dopo le tasse, ed è
un indice più pulito e omogeneo per i confronti (fonte NBER). Le zone d’ombra,
cioè le strisce verticali, corrispondono ai periodi di recessione.
I valori nella tabella
oscillano al punto che non basta attenersi ai dati oggettivi, quelli degli
economisti. Vanno anche tenute presenti quelle che sono le aspettative degli
investitori, secondo l’indice di Shiller. Si tratta di un indice molto semplice
basato su una sola domanda rivolta a un campione rappresentativo di investitori:
“Pensi che il mercato sia sopravvalutato, sottovalutato o abbia un valore
corretto?”. Come si vede dalla tabella qui sotto riportata non c’è da stare
troppo tranquilli perché gli investitori sono oggi ottimisti. Meno, per la
verità, di quanto lo fossero prima che scoppiasse la bolla del 2000, ma sempre
molto ottimisti. Anzi, da quella volta non sono mai stati così ottimisti.
Questo, conclude Shiller, è un dato preoccupante. Le persone infatti tendono a
pensare che le cose continuino come sono andate in passato, e questo le porta
ad essere ottimiste dopo i forti rialzi di borsa, come il decennio degli anni
novanta e l’ultimo quadriennio (cfr. Tabella), e ad avere paura dopo i forti
ribassi. Non c’è migliore dimostrazione del fatto che oggi la paura è
“disadattiva” e non adattiva. Basta confrontare le due tabelle.
L’indice di Shiller
discende da su una sola domanda rivolta a un campione rappresentativo di
investitori: “Pensi che il mercato sia sopravvalutato, sottovalutato o abbia un
valore corretto?” (fonte NBER).
Questo
stato di cose spiega perché la strategia mentale più semplice per evitare che,
in questo nuovo mondo, il futuro ci faccia paura, consiste nell’immaginare che
il futuro ci riservi meno cambiamenti di quelli che in effetti si produrranno.
Questo meccanismo di sottovalutazione del cambiamento corrisponde proprio ai
dati di Robert Shiller nel senso che le persone hanno aspettative congruenti
con l’andamento di borsa di cui hanno fatto recente esperienza e di cui hanno
una memoria personale. Tale meccanismo, oltre a spiegare lo scostamento tra
paura e pericolo in borsa, ha una curiosa conseguenza che è stata misurata per
la prima volta nel 2013 grazie a un’importante ricerca pubblicata su Science.
La ricerca è stata ideata da un celebre professore di Harvard, Daniel Gilbert.
Egli ha chiamato l’effetto scoperto: “L’illusione della fine della storia”
(4 gennaio 2013, disponibile in rete digitando su Google: The End of History
Illusion). Tale ricerca dimostra che a ogni età della vita siamo convinti,
sbagliando, di restare sempre gli stessi per gusti e per abitudini. Quando rievochiamo
com’eravamo un tempo, ci sembra di essere diventati diversi. Siamo consapevoli
di quanto siano cambiati negli anni i nostri gusti, la nostra personalità e,
soprattutto, il mondo del lavoro.
Il team di psicologi che ha lavorato con Daniel Gilbert ha definito questo fenomeno «illusione della fine della storia». Gilbert ha concluso che le persone hanno la tendenza a «sottovalutare quanto cambierà in futuro la loro vita e il loro lavoro».
Secondo i
risultati della loro ricerca, che ha coinvolto più di 19.000 persone fra i 18 e
i 68 anni, questa illusione è un tratto persistente, dall’adolescenza fino
all’età avanzata della pensione (negli USA si va mediamente in pensione più
tardi che in Italia). Ovviamente l’illusione della fine del cambiamento si accentua
con il passare degli anni perché le persone sono convinte “di averle viste
tutte”. L’illusione quindi colpisce di più le persone mature, proprio
quelle che gestiscono i risparmi (in Italia il 73% della ricchezza è in mano a
chi ha più di 65 anni).
Le persone di mezza età come me - osserva lo psicologo di Harvard Daniel Gilbert - spesso guardano agli anni della propria adolescenza con un misto di divertimento e imbarazzo. Via via che andiamo avanti con l’età crediamo sempre più di aver capito tutto, e che il mondo del lavoro non ci riserverà sorprese, ma si ripeterà, un po’ come avviene nel celebre film Il giorno della marmotta, dove la stessa giornata si ripete all’infinito per una sorta di incantesimo.
La
ricerca ha suscitato un grande dibattito negli Stati Uniti, dove c’è la
tendenza, tipica dei paesi industriali (per un mix di motivi noti), ad
allungare l’età lavorativa e a rimandare la pensione. In effetti, la ricerca è
molto ricca: i partecipanti hanno risposto a domande sui loro tratti caratteriali,
e soprattutto sul loro lavoro, ma non solo (hanno dichiarato anche le loro
preferenze relative a scelte per cibo, vacanze, hobby e gruppi musicali). A un
campione di migliaia di persone è stato chiesto quel che è successo nel
decennio passato e, poi, a un altro campione, è stato chiesto di fare
previsioni per il decennio futuro.
Com’è ovvio, i più giovani hanno descritto cambiamenti più rilevanti, nei dieci anni precedenti, rispetto ai partecipanti di età più avanzata. E tuttavia non è questa banalità il punto che qui ci interessa. Il dato cruciale è che, con l’andare avanti dell’età, pensiamo che il mondo del lavoro, ancora più di quello degli affetti, si sia ormai stabilizzato e, quindi, non ci “ingaggerà” più, né ci incuriosirà. Di qui, per molte persone, l’attesa della pensione come liberazione da un mondo diventato ripetitivo, un mondo al quale ci siamo assuefatti. Un mondo che crediamo non cambierà, anche se l’effetto di tale credenza è diverso tra culture occidentali e asiatiche (cfr. a questo riguardo Igor Grossmann et al., Aging and Wisdom, Psychological Science, online, 28 agosto 2012). Il professore Daniel Gilbert e i suoi collaboratori, Jordi Quoidbach di Harvard e Timothy Wilson dell’Università della Virginia, ritengono che questo effetto sia spiegabile, almeno per le attività professionali, ambito nel quale l’effetto è più accentuato, alla luce della documentata tendenza degli individui a sopravvalutare la propria capacità e a sottovalutare l’impatto dei cambiamenti. Una miscela micidiale nel campo della gestione dei risparmi: induce le persone anziane al “fai da te” guidato dalle loro esperienze personali che, per puro caso, coincidono con una fase storica delle due tabelle qui riportate.
Com’è ovvio, i più giovani hanno descritto cambiamenti più rilevanti, nei dieci anni precedenti, rispetto ai partecipanti di età più avanzata. E tuttavia non è questa banalità il punto che qui ci interessa. Il dato cruciale è che, con l’andare avanti dell’età, pensiamo che il mondo del lavoro, ancora più di quello degli affetti, si sia ormai stabilizzato e, quindi, non ci “ingaggerà” più, né ci incuriosirà. Di qui, per molte persone, l’attesa della pensione come liberazione da un mondo diventato ripetitivo, un mondo al quale ci siamo assuefatti. Un mondo che crediamo non cambierà, anche se l’effetto di tale credenza è diverso tra culture occidentali e asiatiche (cfr. a questo riguardo Igor Grossmann et al., Aging and Wisdom, Psychological Science, online, 28 agosto 2012). Il professore Daniel Gilbert e i suoi collaboratori, Jordi Quoidbach di Harvard e Timothy Wilson dell’Università della Virginia, ritengono che questo effetto sia spiegabile, almeno per le attività professionali, ambito nel quale l’effetto è più accentuato, alla luce della documentata tendenza degli individui a sopravvalutare la propria capacità e a sottovalutare l’impatto dei cambiamenti. Una miscela micidiale nel campo della gestione dei risparmi: induce le persone anziane al “fai da te” guidato dalle loro esperienze personali che, per puro caso, coincidono con una fase storica delle due tabelle qui riportate.
«Pensare
di avere raggiunto l’apice della nostra evoluzione personale ci fa sentire
bene», dice Quoidbach. «L’esperienza del “Se avessi saputo allora quello che so
adesso” ci dà un senso di soddisfazione e di significato, mentre renderci conto
della transitorietà delle nostre capacità e, soprattutto, dei cambiamenti
futuri del mondo può generare angoscia».
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