domenica 31 marzo 2013

Laboratorio Swiss & Global - Lezione N. 28 – Paura, diversificazione, evoluzione darwiniana


La paura è cattiva consigliera anche per un altro aspetto, quello della diversificazione, su cui torneremo più volte. Poniamo che una persona sia molto impaurita e decida di comprarsi il titolo che considera più sicuro, un governativo quinquennale tedesco che, essendo una tripla AAA, ha possibilità di default a 5 anni soltanto del 0,1%. E’ quindi molto più sicuro di un titolo doppia BB, che ha una probabilità di default più grande di almeno venti volte. Supponiamo, viceversa, che acquisti quote del JB Emerging Bond Fund, un fondo che contiene titoli mediamente doppia BB, quindi fatto di un insieme di pezzi ciascuno dei quali è, considerato in sé stesso, molto più rischioso del titolo tedesco. E tuttavia questi titoli sono centinaia, con valute ed emittenti diversissimi.

Dato che:
Ø  ciascun titolo obbligazionario copre una percentuale minima del fondo,
Ø  i fallimenti degli emittenti sono eventi per larga parte indipendenti,
la probabilità di default di ciascuno di essi va moltiplicata per la probabilità degli altri. Alla fine non è più probabile che fallisca, nel suo complesso, il JB Emerging Bond Fund, rispetto a singolo titolo quinquennale tedesco. Questo effetto combinato di rischio e diversificazione non viene colto dai non addetti ai lavori che, impauriti, si rifugiano spesso in un titolo super-sicuro che non compensa nemmeno l’inflazione, invece di acquistare una quota piccola di un fondo all’interno di un portafoglio a sua volta molto diversificato. Per esempio, all’interno di un portafoglio assai diversificato, una piccola quota del JB Emerging Bond Fund, che rende cinque volte più della tripla AAA tedesca, ed è a sua volta molto diversificato al suo interno.

Se un portafoglio è molto differenziato al suo interno, è comunque molto più anti-fragile, capace cioè di resistere gli eventi inattesi che colpiscono un paese, o una parte del mondo. Il portafoglio concentrato su un paese è molto più vulnerabile, anche se si ha molta fiducia nello sviluppo di quel paese. La diversificazione estrema funziona come l’evoluzione di una specie animale, che affronta il futuro producendo molte varianti, rispetto a una specie che si replica sempre nello stesso identico modo, generazione dopo generazione. Quando l’ambiente cambierà in modi imprevisti e imprevedibili, una parte dei varianti si adatterà meglio al nuovo ambiente. E così la specie nel suo complesso  si modificherà sopravvivendo, anche se perderà per strada gli elementi inadatti ai nuovi ambienti. Non importano più che tanto le caratteristiche di ogni variante, è la differenziazione che conta.

Un esempio storico illustra molto bene questo punto, e cioè la vulnerabilità di un portafoglio concentrato su un solo mercato, quando capitano eventi rari, e quindi del tutto inattesi (cfr. Buttonwood su Economist del 9 febbraio 2013, p. 62, cfr. figura qui riportata, dove sono mostrati i valori delle due borse, statunitense e russa, in termini di rendimenti complessivi, dal 1865 fino alla rivoluzione sovietica del 1917).


Nei cinquanta anni dopo la fine della guerra civile americana, la borsa di San Pietroburgo ha avuto rendimenti sistematicamente superiori alla borsa di New York. Cento dollari statunitensi erano diventati più di 500 dollari nel 1910 a San Pietroburgo e poco più di 200 a New York. Fino al 1917, agli albori della rivoluzione sovietica, il rendimento cumulato era stato più che doppio. Poi, di colpo, si passò a zero, dopo un anno di rivoluzione. Allora il concetto di diversificazione non era disponibile, almeno non nei termini della finanza contemporanea. Solo per caso, alcuni aristocratici avevano residenza all’estero, e questo fece la differenza tra guadagnarsi da vivere come cameriere o taxista o sopravvivere grazie a una stentata rendita! Oggi le cose sono diverse: anche se la grande potenza industriale che ha più forte sviluppo è la Cina, nessuno affiderebbe tutti i suoi risparmi a quel paese. Eppure, ancor oggi, le persone tendono a investire in quello che conoscono, e questa strategia porta inevitabilmente a preferire il paese natio, e il proprio continente, comunque quello che si conosce meglio.

Gli studiosi Elroy Dimson, Paul Marsh e Mike Staunton, della London Business School, nel pubblicare quest’anno la loro statistica sui rendimenti delle diverse borse dal 1900 al 2012, hanno corretto le statistiche dell’anno scorso, includendo nella banca dati paesi come la Russia e la Cina (andati a zero nel 1918 e nel 1949), e paesi travagliati come l’Austria, la cui borsa dal 1900 al 2012 ha subito ben 97 anni consecutivi di perdite in termini reali. Tenendo conto anche di questi eventi rari, ma evidentemente non impossibili, il rendimento medio delle azioni su questo periodo ultrasecolare è sceso dal 5,4% al 5%. Sempre buono, rispetto ad altre possibilità d’investimento calcolate su un arco così lungo e sui paesi per cui sono disponibili statistiche (ovviamente anche il valore degli immobili, per esempio, è andato, per i rispettivi proprietari, a zero in Russia, in seguito alla rivoluzione). E tuttavia, se teniamo presente che, per la mia generazione, gli Stati Uniti sono diventati il sistema di riferimento, sia sui media sia presso gli studi specialistici degli addetti ai lavori, possiamo renderci conto di come questo sistema inneschi una prospettiva deformante. Infatti, la media mondiale, dal 1990 al 2012, è stata del 5%, ma è composta di un 6,3% degli USA e di un 4,4% di tutto il resto del mondo. Questo è dovuto alla forte capitalizzazione della borsa americana e al conseguente peso rilevante dei suoi ottimi rendimenti. La stima dei tre professori della London Business School per i prossimi 20-30 anni è del 3% annuo per gli USA, molto meno dell’eccezionale seconda metà del secolo scorso. La tendenza a vedere il mondo partendo da casa propria, e quindi sopravvalutando quel che è vicino, e si conosce meglio, è dura a morire. Le borse dei 4 paesi BRIC – termine coniato da O’Neill di Goldman Sachs nel 2001, alludendo al concetto di “mattone”, cioè alla forza di quelle economie: Brasile, Russia, India e Cina – hanno guadagnato il 424% nella decade che è terminata nel 2010. Risultato non sorprendente se si pensa che in quel decennio i BRIC hanno avuto una crescita media annua del 6,6%. Con il consueto ritardo questi paesi sono stati inseriti nei portafogli dei risparmiatori, ma l’entusiasmo degli anni più recenti ha reso queste borse oggi care rispetto alle altre aree del mondo. Alla fine di febbraio 2013 l’Euro Stoxx 50 vale 10,9% in termini di p/u, lo S&P 500 è a 13,7% e il MSCI Asia Pacific Index è a 14,8%. Come sempre si procede guidando con lo specchietto retrovisore: ancora una volta è la paura che ci ha procurato l’incerto futuro dell’Europa ad aver depresso le quotazioni. Il punto non è l’ignoranza della vastità degli scenari mondiali, oggi a tutti noti, ma la difficoltà cognitiva ed emotiva a usare una strategia veramente differenziata su così tante variabili. Una strategia che presuppone che non conosciamo il nostro futuro e che non dobbiamo basarci su quello che conosciamo meglio. Così come la strategia dell’evoluzione delle specie biologiche è contro-intuitiva, dato che implica l’azione del caso, lo è anche la nozione economico-finanziaria di diversificazione.

Il nocciolo della difficoltà consiste nel fatto che è richiesto un cambiamento di prospettiva. Capire cioè che la sorte del nostro portafoglio è fatta dai mercati che scelgono, ben più che dalle nostre scelte personali. Noi dobbiamo limitarci a diversificare per ridurre il rischio e per essere pronti per ogni evenienza. Per assumere questa prospettiva dobbiamo considerare il portafoglio come qualcosa che si replica nel tempo, e replicandosi va incontro ad ambienti diversi, e viene poi selezionato da questi ambienti o, meglio, dalle mutazioni di questi ambienti. Se introduciamo delle varianti diversificando il portafoglio, questo sarà meno fragile a fronte di cambiamenti futuri. Tale strategia si può applicare a tutti gli artefatti, anche a quelli materiali costruiti all’interno di una data cultura, nei casi in cui non è disponibile o non è applicabile un progetto “a priori”. Ad esempio, in Polinesia, le popolazioni locali costruiscono diversi tipi di imbarcazioni, e poi scoprono che certi tipi di imbarcazioni vanno meglio in determinate condizioni del mare. Non conoscendo queste ultime, procedono per prove ed errori. Il mercato è un progettista “cieco” così come lo è il mare rispetto alle canoe e la natura rispetto alle specie animali (Cfr. Peter Godfrey-Smith, Darwinian populations, Oxford UP, 2009, p.154 e segg.).

L’analogia darwiniana illumina anche il processo che sta dietro ai meccanismi di imitazione delle scelte di successo, e del graduale diffondersi del successo del passato, per imitazioni successive da parte di sempre più membri di una popolazione. Di conseguenza i processi di contagio che portano alla diffusione per imitazione implicano ritardi anche negli “aggiustamenti”. Di qui il fatto che chi ha reso il 424% nella decade precedente, l’area mondiale cioè che ha fatto meglio, diventerà quella preferita e anche quella più cara in termini di p/u. Si creano così le condizioni perché la regressione verso la media faccia il suo consueto lavoro sui periodi temporali lunghi, quelli che abitualmente ci sfuggono. E tuttavia la regressione verso la media agisce su durate di gran lunga troppo estese, anche se non sono necessari i 112 della statistica di Elroy Dimson, Paul Marsh e Mike Staunton, della London Business School, quella relativa ai rendimenti delle diverse borse dal 1900 al 2012. Ovviamente questo è un arco temporale ridicolo, se non per gli studiosi nella prospettiva da cui siamo partiti in questa lezione. Intervalli temporali così lunghi sono ingestibili sia a livello cognitivo sia a livello emotivo.

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