domenica 12 agosto 2012

ERRORI DA EVITARE: perché acquistiamo azioni dell’azienda per cui lavoriamo? I molti insegnamenti che si possono trarre da un comportamento solo apparentemente marginale nell’esperienza italiana.



Abbiamo fatto la conoscenza, la volta scorsa, dell’errore che molti risparmiatori commettono nel voler privilegiare l’acquisto di  titoli di aziende ubicate nella loro stessa zona. Molto simile a questo c’è l’errore dell’acquisto di azioni dell’azienda per cui si lavora. Spesso accade che i risparmiatori concentrino eccessivamente nei loro portafogli i titoli delle imprese per le quali lavorano; negli Stati Uniti ciò accade in modo particolare attraverso i piani individuali di risparmio.
In un’inchiesta per conto del Wall Street Journal condotta su 246 delle maggiori aziende americane, Schultz constatò che il 42% degli investimenti nei piani di pensionamento dei dipendenti era concentrato su titoli delle loro aziende. Questa concentrazione, che di per sé è contraria a qualsiasi principio di razionalità nella costruzione di asset finanziari, è ancora più rischiosa in quanto la totalità del capitale umano dell’investitore medesimo (ossia la sua capacità lavorativa) è già investita in quell’azienda.
Ciò si spiegherebbe sulla base del fatto che i piccoli investitori sono sicuri, per via del pregiudizio della familiarità, che le azioni della loro azienda siano meno rischiose di un fondo comune di investimento; in altre parole le azioni del proprio datore di lavoro sono ritenute dai dipendenti  meno rischiose rispetto a tutto il resto del mercato che è composto da migliaia di titoli differenti le cui oscillazioni si bilanciano sostanzialmente le une con le altre e proprio i fondi comuni, replicando l’intero mercato, ne sono una valida rappresentazione.
Alle medesime conclusioni giunse Benartzi che analizzò i risultati di un’indagine condotta da Morningstar sulla base di oltre 1.000 risposte a un questionario proposto via internet relativo alla performance delle imprese. Una delle domande consisteva nel chiedere se le azioni dell’ azienda dove lavoravano avessero più o meno la possibilità di perdere il 50% del loro valore nel corso dei successivi cinque anni. Le risposte evidenziarono che poco più del 16% degli intervistati riteneva le azioni delle loro imprese più rischiose del resto del mercato. Tra quelli non laureati la percentuale si abbassava addirittura ad una percentuale inferiore al 7%. Un minor grado di istruzione dunque esporrebbe i risparmiatori ad una maggiore rischiosità degli investimenti.
Un ulteriore studio effettuato sugli asset dei piani di pensionamento di 500 delle maggiori aziende americane incluse nell’indice S&P 500 porta a conclusioni analoghe, ossia che la fiducia risposta sulla propria azienda si basa più su una convinzione di controllo piuttosto che su reali riscontri.
In primo luogo i dipendenti incrementano le proprie posizioni azionarie quando i valori azionari sono già saliti dimostrando, almeno in parte, di non agire consapevolmente sulla scorta di informazioni particolari ma sulla scorta degli stessi pregiudizi comuni alla massa dei normali risparmiatori.
Inoltre un elevato tasso di investimento nelle azioni della propria azienda non implica una capacità di previsione di futura crescita delle azioni stesse. In media i titoli delle società che hanno registrato un forte saggio di investimento non hanno successivamente fatto registrare performance migliori. Tutto ciò porta ritenere che i dipendenti investano nella loro impresa più per motivi affettivi che non per mero opportunismo.
Agire in tal senso, dunque, oltre ad aumentare inutilmente il livello di rischiosità del portafoglio, implica anche una perdita del rendimento; a parità di rischio, infatti, un portafoglio diversificato avrebbe prodotto una maggiore redditività. La misurazione di questa anomalia, ad una precisa verifica, stabilì nel 42% la perdita di rendimento nei piani pensionistici. Va altresì riconosciuto che tra le cause di questa concentrazione, almeno per il mercato nordamericano, ci stanno anche i provvedimenti che agevolativi che sovente i datori di lavoro accordano ai loro dipendenti.
LE DIVERSITA’ DEL FENOMENO NELL’ESPERIENZA ITALIANA. Nella mia esperienza ho personalmente constatato questo fenomeno con sfumature diverse. Innanzitutto non si è verificato attraverso piani pensionistici, che nel nostro paese hanno purtroppo ancora una scarsa penetrazione nei portafogli delle famiglie, ma si è manifestato mediante l’acquisto di obbligazioni e titoli azionari. Diversamente dall’esperienza statunitense e in considerazione della particolare territorialità nella quale mi trovo a operare in cui sono poche le aziende presenti sul listino, questi flussi in acquisto sono stati effettuati da dipendenti di aziende a carattere nazionale capillarmente presenti sul territorio. Diversamente dall’esperienza statunitense i soggetti erano normalmente acculturati; la differenza è spiegabile nell’assenza di strumenti analoghi nel nostro paese - disponibili a tutti i risparmiatori e non solo alla classe medio/alta - ma ciò conferma che non è la razionalità che porta ad assumere questi errati comportamenti.
Sulle risultanze non ho mai fatto verifiche matematiche ma sono testimone di gravi perdite sulla componente azionaria e a assunzioni di rischio aggiuntivo inutili sulla componente obbligazionaria dei portafogli.
Ricordo infine il caso Parmalat che registrò una particolare incidenza di sovraesposizione del titolo nei portafogli dei lavoratori di quell’azienda con gravissime conseguenze per loro stessi e le loro famiglie.
In una situazione di crisi strutturale come quella attuale, vale infine la pena di soffermarsi su un aspetto tutt’altro che secondario. Nel nostro paese l’imprenditorialità è piuttosto diffusa e dunque sono moltissimi gli artigiani, commercianti, professionisti e imprenditori che devono far fronte alle difficoltà del mercato. Orbene, senza nulla togliere alla necessità legittima di supportare e sviluppare le attività di impresa che questi operatori svolgono e nella possibilità, non remota, che si possa giungere a situazioni di grave difficoltà, andrebbe valutata con un serio e valido consulente l’eventualità di non incorrere in simili errori che andrebbero a depauperare inutilmente il patrimonio familiare. Considerare e valutare in modo molto razionale ed opportunistico ciò che NON deve rientrare nel rischio di impresa ma ciò che deve invece restare saldamente ancorato a tutela del proprio nucleo familiare è certamente un atto di responsabilità.
Mi auguro ovviamente che la situazione del nostro paese non possa che migliorare ma ben diverso è un auspicio da una fredda valutazione della situazione economica del paese. L’agguerrita e sempre più pressante concorrenza internazionale, la scarsità di credito, la latitanza di politiche di sviluppo di carattere nazionale, l’incombente ridimensionamento del welfare non lasciano presagire di certo tempi facili ed abbondanza.
Commettere errori come quelli appena descritti sono, ai miei occhi di professionista, dei veri e propri crimini verso la propria persona e in subordine verso la società nel suo complesso. Si faccia tesoro di questa “lezione” e la si applichi quanto prima alla propria situazione: non potremo che trarne tutti quanti un gran beneficio.

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