Nella
lezione precedente abbiamo visto i tre casi in cui è possibile fare
valutazioni/stime probabilistiche, cioè i casi in cui non vale la “incertezza
radicale” di cui ci parla King nel suo bel saggio.
Abbiamo già accennato al
recente lavoro di Mervyn King (La fine dell’alchimia, il
Saggiatore, 2107). Un punto rilevante di questo lavoro, per quanto concerne
l’attività di consulenza, riguarda quello che si aspettano i non addetti ai
lavori da un “consulente di qualità”, per così dire, quale è in effetti il
governatore della Banca d’Inghilterra quando viene “consultato” dal governo.
Dicevo che tutto il resto, tutto quanto ciò che non rientra nelle categorie
descritte nella lezione precedente, e cioè le valutazioni/stime
probabilistiche, è riconducibile a quella che King chiama “incertezza radicale”
e che ha, tra le altre conseguenze, l’imprevedibilità del futuro.
Questa “incertezza
radicale” è profondamente sottostimata dai più che possono, almeno i più
preparati, accettare che un economista si muova a livello di modelli formali
che non hanno o hanno poco impatto sulla realtà o la spieghino solo a
posteriori e su tempi molto lunghi. Queste stesse persone, però, tendono a non
accettare che un “operativo”, come il governatore della banca centrale, non sia
in grado di fare stime dei rischi e quindi previsioni sul futuro.
Nonostante i ripetuti
insuccessi dei modelli di previsione economica, l’idea che esista (e che si
tratti solo di trovarlo) un “modello” dell’economia in grado di sfornare
previsioni esatte è dura a morire. Quando sono stato chiamato a testimoniare
alla Commissione Tesoro della Camera dei Comuni, ho dovuto rispondere più volte
con un: “Non lo so, non ho una sfera di cristallo”. Molti parlamentari hanno
reagito con sdegno: si vede che nella loro mente il mio lavoro consisteva nello
scrutare una palla di vetro e dire che cosa stava per accadere. Non c’è stato
verso di far capire loro che il futuro non lo possiamo prevedere, né io né
nessun altro. In tutte le epoche, i medici improvvisati che vendono farmaci
miracolosi e gli astrologi che vendono profezie sono sempre stati
richiestissimi. Oggi a queste categorie si sono aggiunti gli economisti che
vendono previsioni: segno di un comprensibile quanto irrazionale desiderio di
certezza.
Perché siamo così restii a
capire che il futuro è fuori dal nostro controllo? La riluttanza a dare ai
rischi il rilievo che meritano nasce forse dalla difficoltà di molti di noi nel
comprendere la logica probabilistica … Quando pensiamo alla nostra vita
personale, accettiamo che la dea bendata abbia un peso, ma quando si parla di
denaro siamo ancora aggrappati alla ”illusione della certezza”. (Mervyn King, La
fine dell’alchimia, pp. 128-129).
In realtà anche nel caso
delle nostre vite personali le recenti ricerche di psicologia (ricordate
l’illusione della fine della storia, di cui vi ho già parlato?), mostrano che
noi sottovalutiamo l’incertezza e il cambiamento nella nostra vita futura.
Questa sottovalutazione è l’altra faccia della medaglia della “illusione della
certezza”. Entrambe derivano dalla tendenza a focalizzarci su quello che
conosciamo e che ha fatto parte della nostra esperienza passata, escludendo
così possibilità ed eventualità che riteniamo non solo che potrebbero capitare,
ma che, sui tempi lunghi in effetti capitano.
Affrontare un’incertezza
non quantificabile, su cui non abbiamo alcun controllo, mette in crisi il
nostro ordine mentale. E’ qui che nasce la nostra tentazione di credere
ciecamente agli esperti che spacciano certezze e di fidarsi delle
estrapolazioni del passato. Se i prezzi delle case aumentano ogni anno da tanto
tempo, sembra naturale pensare che continueranno a farlo.
Queste convinzioni spesso
alimentano un ulteriore aumento dei prezzi, finché non sopraggiunge un evento
esterno … (King, op. cit. p. 120).
Si può notare che la stessa
espressione, oggi in voga sui mercati finanziari, di risk-on e di risk-off, in
riferimento alla scelta di passare dai titoli a reddito fisso ai mercati
azionari (on, e viceversa: off), è vagamente fuorviante in quanto implica che
si possa misurare questo tipo di rischio. A stretto rigore sarebbe più
importante dire “uncertainty in”, oppure “off”, dato che l’incertezza dei
mercati è traducibile in rischio solo su tempi molto brevi, e in modi
approssimativi (cfr. lezione precedente).
Ecco
l’esempio più recente trovato su Bloomberg, riferito all’ultimo discorso di
maggio della Yellen: “Treasuries rallied amid a risk-off bid throughout markets
Monday, holding onto gains after late remarks by Federal Reserve Chair Janet
Yellen about the U.S. economy”.
Questo stato di cose ha
portato a un grande fraintendimento nei confronti dell’importanza del passaggio
generazionale e del ruolo del consulente. Anche questo contribuisce, in modo
riduttivo e quindi fuorviante, a far credere che il consulente abbia il compito
di consigliare “gli investimenti giusti”.
Questo è vero solo se
s’interpreta il termine “giusti” come “diversificazione del patrimonio”, e non
“giusti” come “scelti bene per il portafoglio”. Ma la conseguenza più
negativa di questo fraintendimento è che non si chiede al nostro consulente la
cosa che dovremmo chiedere, in quanto assolutamente prioritaria. E lui non
sempre riesce a guidarci in questo senso. Oggi, come si è visto nella lezione
precedente, in Italia sarebbe urgente accelerare il passaggio generazionale.
Se, in media, lo si fosse fatto dieci anni fa, anticipandolo rispetto alle
scadenze adottate, e se si fossero, in concomitanza a tale passaggio, anche
gradualmente, ri-bilanciati i patrimoni, oggi avremmo in Italia un risparmio complessivo
non di ottomila miliardi ma di almeno dodicimila.
Se non ci fossimo
“affidati” solo alle componenti che sono state sopravvalutate, rispetto a un
portafoglio ben differenziato, sopravvalutate e quindi sovra-pesate, in forza
della fuorviante euristica del riconoscimento (scegliere ciò che ci è
familiare) e dell’estrapolazione del passato (illusione della certezza), allora
avremmo dato più peso nel portafoglio a componenti:
- non italiane,
- non in euro
- e non reddito fisso
e, soprattutto, avemmo meno
immobili, se fossero stati scelti non come investimenti ma solo come
servizio (in pratica una o due case per famiglia: avremmo complessivamente un
terzo al massimo dei patrimoni in immobili e non più della metà!). Tutto ciò
avrebbe dato una spinta molto forte all’incremento della maggior parte dei
patrimoni degli italiani. Purtroppo, invece di occuparsi del passaggio tra
generazioni in un’ottica di ruolo del consulente, inteso come guardiano del
patrimonio totale sui tempi lunghi, ci si è concentrati sulla concezione
riduttiva della consulenza come gestione del portafoglio.
Per lo meno in Italia, una
riduzione dall’1% medio di costo di gestione dei portafogli gestiti avrebbe
avuto nell’ultimo decennio un peso molto inferiore ai vantaggi che avremmo acquisito
anticipando il passaggio generazionale. E invece il timore è oggi che tutto il
dibattito si concentri e si riduca alla Mifid2, ai costi di gestione, e alla
superiorità dei fondi passivi rispetto ai fondi attivi. Questo dibattito,
importato dagli USA, è oggi in Italia fuorviante perché distoglie dai problemi
più urgenti, di cui il più pressante è proprio il passaggio generazionale.
Questo errore "di
prospettiva" dipende dall’aver importato il dibattito USA, dove il
problema del passaggio generazionale è ben diverso perché la cultura
“familiare”, in ottica economica-finanziaria, ha ben poco a che fare con quella
italiana. Questa influenza negativa è bene illustrata dalle figure qui
riportate, oggetto prevalente del dibattito USA che si riverbera anche nel
nostro paese.
La figura mostra la tendenza forte negli USA, nel
corso del 2016, a passare da attivo a "passivo". Fonte: Bloomberg
modificata.
La figura mostra come, negli USA nel 2016, tra i 10
titoli più trattati, siano solo tre quelli singoli, corrispondenti a una
specifica azienda quotata. Prevalgono i fondi passivi. Fonte: Bloomberg
modificata.
La figura mostra come, negli USA nel complesso del
2016, si sia usciti dai fondi attivi (blu) per riversare i soldi sui passivi
(rossi). Prevalgono quindi i fondi passivi. Fonte: Bloomberg modificata.
L'incertezza radicale di
cui ci parla King è quella che dovrebbe in teoria spingere a diversificare i
patrimoni. Ma non con la diversificazione “intuitiva” che, per troppo tempo
hanno usato gli italiani. Al contrario con una diversificazione scientifica che
richiede di non prendere la prospettiva di “corto respiro” che caratterizza la
maggior parte dei patrimoni del nostro paese (la diversificazione intuitiva
viene fatta scegliendo come canali di investimento e come alternative quelle
note al risparmiatore sulla base della sua familiarità passata con i vari tipi
di investimenti, e non con il ventaglio oggettivo delle possibilità: quanto più
una persona è anziana quanto più tale strategia intuitiva è forte perché poggia
sulla sua esperienza passata).
Anche noi abbiamo insistito
con la necessità della diversificazione. Ormai, la grande crisi del 2008 l’ha
resa familiare a tutti e tutti i media ne ricordano sempre la necessità.
Esiste però un fenomeno
molto più rilevante di cui raramente si parla, ed è il nodo del "passaggio
generazionale". Perché se ne parla raramente? In primo luogo, prima ancora
che per la presenza di variabili più squisitamente psicologiche, per il fatto
che quasi tutti i dibattiti prendono in considerazioni le tematiche
complessive, quelle che interessano i singoli paesi e i blocchi più ampi,
soprattutto gli USA, e non la specificità delle famiglie. In Italia invece la
situazione sopra descritta vede solo nel passaggio generazionale l’occasione
più rilevante e adeguata per quella ristrutturazione graduale dei patrimoni che
è molto benefica, e più urgente dei temi di cui si parla spesso.
Tutto ciò è un altro
aspetto del paradosso fondamentale del passaggio generazionale: concentrandoci
sui portafogli finanziari, sul dibattito attivo/passivo, e sull’incertezza dei
tempi, ci si dimentica che, paradossalmente, nel contesto specifico del
panorama del nostro paese, proprio un portafoglio ben gestito – in assenza
della prospettiva del passaggio generazionale – è un portafoglio mal gestito
perché spesso troppo centrato sul breve termine e la prudenza ad esso connessa,
data l’età del detentore del portafoglio e il suo "profilo di
rischio" specifico in media di quell’età.
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