Abbiamo
già esaminato cinque dei principi psicologici che spiegano le difficoltà a
prendere in considerazione il passaggio generazionale. Ora passerò in rassegna
altri principi, per poi procedere a una serie di considerazioni più generali
nel corso
delle prossime lezioni. Nei miei recenti incontri con i consulenti ho
notato molto interesse per il tema e quindi ho deciso di approfondirlo.
Quinto principio: pauroso ≠ non
pericoloso
Le persone non
"vedono" i pericoli perché guardano solo nello specchietto
retrovisore della loro vita e vedono i guai solo quando sono già successi.
Questo è il motivo per cui la vita è sempre più sorprendente del previsto, e
non sempre per il meglio.
Si tratta di un punto che
ho già sviluppato in Economia della mente per contribuire a spiegare la
(pessima) gestione "spontanea" dei portafogli nel "fai da
te". Si tratta però di un principio che attiene anche al passaggio
generazionale perché è un "passaggio" della vita che può fare paura.
Nella preistoria, si usciva
di casa - dalle caverne, o dalle abitazioni su palafitte, relativamente
sicure – e poteva succedere di tutto. In un attimo, da predatori quali si
cercava di essere, poteva capitare di ritrovarsi prede. La paura era allora
un’emozione cruciale, o meglio "adattiva". Ci permetteva di fissare
in memoria gli scenari in cui, per un pelo, si era riusciti a scampare a
pericoli mortali salvandosi da situazioni rischiose.
Contribuiva alla sicurezza
anche l’autorità dei “grandi” che ci insegnavano a evitare i pericoli.
Originariamente l’istruzione e l’addestramento servivano ad alzare le
probabilità di sopravvivenza in ambienti ostili e rischiosi. Per esempio, i
grandi della nostra tribù ci dicevano: “Non giocare con l’acqua quando il sole
è alto!”. Se i bambini avessero disobbedito, sarebbero andati al fiume nelle
ore più calde, quando gli animali si dissetavano e i coccodrilli stavano in
agguato sperando in una bella colazione. I nostri antenati temevano per lo più
le situazioni oggettivamente pericolose e, grazie a queste paure, non andavano
a ficcarsi nei guai. Una cultura che fosse stata priva di questa emozione
basilare sarebbe stata destinata all’estinzione. Come aveva osservato Darwin,
alla fine dell’Ottocento, non sono i più forti e i più coraggiosi a
sopravvivere, ma chi si adatta meglio ad ambienti in rapido mutamento.
Poi, nei tempi moderni,
tutto si è complicato. Per esempio: la paura di dormire soli. Una volta era una
paura sensata perché i genitori ci proteggevano dai pericoli. Oggi le stanze da
letto dei bambini sono sicure tanto quelle dei grandi e, un po’ alla volta, lo
impariamo, se non abbiamo genitori troppo apprensivi.
Le emozioni non si
eliminano mai con le spiegazioni a parole, ma con gli esempi e il prevalere di
altre emozioni, più forti. Nel caso delle paure, la fiducia negli altri e in se
stessi è essenziale.
Un altro esempio: il timore
del buio. Un tempo questo tipo di timore evitava ai bambini di incappare in
quei pericoli che corrono, oggi, le persone non più giovani. Negli Stati Uniti,
dove si misurano le frequenze di tutti gli incidenti, un anziano non ha per
solito paura di muoversi al buio pur di non disturbare i familiari accendendo
la luce. Scende dalle scale, inciampa e cade: per i vecchi questa è la causa
più frequente d’incidenti, oltre a scivolare durante la doccia. Due scenari
casalinghi che per solito non fanno paura, ma che sono in realtà molto
pericolosi.
La separazione ingannevole
delle paure soggettive dai pericoli oggettivi colpisce oggi più spesso i grandi
che non i bambini. Per esempio, le persone mature temono violenze, omicidi,
furti: la televisione li mette continuamente in allarme. In realtà nel
2015 gli omicidi sono stati 479, il numero più basso da un secolo a questa
parte. Quando ero piccolo, all’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso,
erano più di tre volte. Anche i furti nelle abitazioni sono diminuiti nel 2016
rispetto al 2015.
Paradossalmente, l’Italia,
è in media un paese sicuro e, al contempo, molto corrotto. La corruzione incute
timore a pochi, anche se fa molti più danni dei ladri “tradizionali”.
Un altro esempio sono i
viaggi: gli aerei sono più sicuri delle auto, ma le paure dei grandi vanno in
senso opposto. E in auto tendiamo ad aver paura degli altri, anche se la
maggior parte degli incidenti è dovuta alle distrazioni di chi guida,
soprattutto se è alle prese con un telefonino.
In conclusione, i bambini
hanno, in media, paure più giustificate e comprensibili perché collegate a
quelle situazioni che, soprattutto in passato, erano pericolose. La paura di
ammalarsi è benefica perché stiamo attenti a evitare di esporci a malattie:
sono solo i grandi ad aver paura dei vaccini e a causare guai. Poi ci sono
situazioni e circostanze in cui non agisce la paura in senso proprio: i bambini
non temono i compiti scolastici, semplicemente non hanno talvolta voglia di
farli. Devono però imparare a procrastinare i desideri: qualcosa che adesso è spiacevole
si trasforma in risultati benefici sui tempi lunghi.
Purtroppo bisogna saper
aspettare più che in passato. Ci si deve impegnare per anni per gli obiettivi
più importanti della vita, ed è bene cercare di divertirsi anche lungo la
strada, senza aspettar ricompense molto lontane nel tempo.
Molti timori ormai vengono
non da quello o da chi ci circonda, ma dalla cultura in cui siamo immersi. Le
famiglie “normali” sono statisticamente rare, ma sono quelle che la pubblicità
mostra come “famiglie buone”. Qui bisogna imparare a ragionare con la propria
testa, a fabbricarci le paure sulla base delle nostre esperienze,
rispettandole, perché in loro c’è la nostra vita, quel che abbiamo imparato sul
mondo a nostre spese. Questa riflessione vale dunque anche per il
passaggio generazionale.
Del passaggio generazionale
si tende ad avere paura perché le persone vanno verso il futuro tenendo
presente quello che è loro capitato in passato e ciò che è sconosciuto, e che
non si è mai esperito, tende a fare paura.
Ho già ricordato come le
persone vadano verso il futuro sconosciuto come se camminassero a ritroso,
proprio come nel famoso acquarello di Paul Klee, da lui chiamato Angelus Novus.
«C’è un quadro di Klee che s'intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che
sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli
occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve
avere questo aspetto.
Ha il viso rivolto al
passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe,
che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli
vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una
tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte
che egli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel
futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui
al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta».
Walter Benjamin (15 luglio
1892 – 26 settembre 1940)
La nostra
tendenza ad andare verso il futuro voltandogli le spalle ci fa credere che il
futuro sia immutabile. Questo è un importante fattore di procrastinazione dei
nostri programmi di vita e, quindi, anche del passaggio generazionale, il più
traumatico dei programmi di vita.
All’inizio del 2013 la rivista Science ha pubblicato una ricerca ideata da Daniel Gilbert, famoso psicologo di Harvard. Circa ventimila persone di diverse età, dai 10 ai 68 anni, hanno valutato, in molti ambiti, quanto erano cambiati negli ultimi dieci anni e quanto, secondo loro, sarebbero cambiati nei prossimi dieci anni. Nel complesso, i dati mostrano un curioso effetto che Gilbert ha chiamato «illusione della fine della storia». Succede che dai trenta fino ai sessant’anni, le persone dichiarano che la loro vita è molto cambiata nel decennio alle loro spalle, ma che non muterà nel decennio futuro. In altri termini, sappiamo che ci sono successe molte cose, ma pensiamo che ormai ci siamo stabilizzati, e che quindi la nostra storia futura sarà all’incirca una replica di quella passata. I dati mostrano che è un’illusione perché, passati i dieci anni, le persone dichiarano che sono cambiate. L’asimmetria tra il peso rilevante del passato e un futuro che si prevede scontato e stabile era già stata intuita da Robert Musil nel L’Uomo senza qualità.
I giovani – dice Musil –
hanno davanti molte possibilità, ma ben presto «si trovano davanti qualcosa che
pretende oramai d'essere la loro vita».
In altre parole con l’età adulta
ci si forma un’immagine di sé, esito delle nostre qualità e non del caso.
Un'autorappresentazione,
frutto della nostra cultura e delle nostre esperienze, cui siamo
particolarmente affezionati: al punto di ritenere improbabile un cambiamento.
Questo “congelarsi” del tempo e del cambiamento ci nasconde le svolte future
della nostra vita ed è uno dei fattori per cui rimandiamo il passaggio
generazionale. Fare questo passaggio vuol dire, implicitamente, ammettere che
il tempo passa.
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