Mi è capitato ieri di leggere un
interessante articolo di Fabrizio Patti,
pubblicato il giorno 6 luglio su “LINKIESTA”,
dal titolo “CRISI BANCARIE, ASPETTATE A
ESULTARE: IL CONTO (SALATO) ARRIVERA’ TRA QUATTRO ANNI”.
Sottotitolo: Quanto perderà lo Stato in
MPS e per le banche venete? In cambio riuscirà a
fermare la crisi delle banche?
E sarà la fine dell’Unione bancaria? E’ solo con le risposte a queste domande
che si potrà capire se le ultime mosse siano state giuste o sbagliate.
Dopo l’ottimismo a profusione elargitoci a
mani basse dal ministro Padoan ecco egregiamente riassunte, in modo articolato,
tutta una serie di considerazioni e valutazioni che in questi mesi, ma
soprattutto nei giorni scorsi in relazione alla vicenda delle popolari venete,
oggetto di dibattito fra gli addetti ai lavori, in particolare fra coloro
(almeno dal mio modesto osservatorio) che per professione si affiancano ai
risparmiatori per aiutarli nella pianificazione finanziaria e nelle loro
conseguenti scelte di investimento.
Mi permetto anche di aggiungere alcune
piccole considerazioni aggiuntive che l’articolo non contempla ma che prima o
poi emergeranno relativamente ai nodi ancora da sciogliere:
- Il progressivo ridimensionamento delle fisicità degli sportelli bancari che in tempi nemmeno troppo lontani erano adeguatamente presidiati con preparati funzionari addetti agli impieghi verso le aziende, ossia dove si è creata l’esplosione dei famigerati Npl;
- L’erosione dei margini di intermediazione che sposta su altri fattori le possibilità di produrre utili ossia costi e balzelli per l’utenza e costi più elevati nell’ambito del risparmio gestito (che altrove va proprio nella direzione opposta);
- L’appiattimento verso il basso dell’offerta di consulenza ventilando alla clientela professionalità di dubbio valore specifico (a tal proposito vedere l’iniziativa di Efpa per l’avvio di percorsi di certificazione palesemente inferiori a quelli originali; diverse preparazioni per una sola identità professionale, un altro bel pastrocchio in vista).
Non mi dilungo ulteriormente invitando
alla lettura dell’articolo che a mio avviso sarebbe da conservare per
verificare – a scadenza – la lungimiranza o meno delle riserve manifestate in
merito all’operato dell’attuale e del precedente governo sul tema del sistema
bancario italiano ed i loro interventi.
Buona lettura.
CRISI BANCARIE, ASPETTATE A ESULTARE: IL CONTO (SALATO) ARRIVERA’ TRA QUATTRO ANNI
“Sarà solo nel
2021, quando lo Stato dovrà rivendere le azioni, che si capirà se il governo
avrà preso la decisione giusta nazionalizzando di fatto Mps o se si sarà
svenato inutilmente. Mettiamoci il cuore in pace: oggi non è possibile dare un
giudizio definitivo sulle scelte più recenti dell’esecutivo in tema di banche.
Possiamo sicuramente ribadire alcuni punti fermi: che la soluzione tampone di
usare Atlante 1 per
tenere in vita due banche, nel frattempo diventate zombie, è stata una perdita di tempo e di denaro per
il sistema bancario. Che il sistema delle Gacs, le garanzie pubbliche sulla parte senior
delle cartolarizzazioni, ha dato risultati modesti,
perché troppo complesso per essere applicato su portafogli di sofferenze da
miliardi di euro e perché non affronta il vero cuore della questione, cioè il
prezzo delle tranche junior e mezzanine. In Mps, ricordiamolo, Atlante 2 ha
acquisito i portafogli di sofferenze junior e mezzanine al 21% del valore
nominale: un valore di poco superiore a quello dei “fondi avvoltoi” da cui
Atlante si sarebbe dovuto distinguere molto più nettamente perché finanziato a
tassi inferiori rispetto agli stessi fondi.
Tra le altre
certezze c’è il fatto che il mercato ha premiato
Intesa Sanpaolo, per la quale tutti gli analisti hanno
evidenziato i benefici di un forte rafforzamento in Veneto, ma anche in Puglia,
senza che sia intaccato il dividendo di quest’anno. Così come si può dire,
senza che ci sia lesa maestà, che su tutta la vicenda veneta pesano i mancati rilievi delle autorità di vigilanza nazionali,
soprattutto sulle operazioni baciate di concessione di prestiti in cambio
dell’acquisto di azioni. Ma, se vogliamo, ci sono limiti anche della stessa
Bce, che fino al 2014 negli stress test ha promosso Popolare di Vicenza e che
in seguito ha monitorato i parametri patrimoniali ma non le modalità attraverso
le quali gli aumenti di capitale venivano realizzati. Molto altro si potrebbe
dire sul lato giudiziario, con le lotte tra giudici alla procura di Vicenza.
Così come molte
riflessioni si potrebbero fare su quello che sarebbe successo se le cose
fossero andate diversamente: cosa sarebbe successo se, con
la via del bail-in fossero stati toccati i bond senior; ossia se sarebbe scattato, o
meno, un effetto panico che avrebbe coinvolto altre banche o altre banche
deboli. Ancora: cosa sarebbe successo se il governo avesse fatto più pressioni
sul sistema bancario perché mettesse gli 1,2 miliardi chiesti dalla Commissione
europea per arrivare a una ricapitalizzazione precauzionale stile Mps, con lo
Stato nel ruolo di azionista. Domanda che ne nasconde altre, come quella sulla
possibilità di rilancio o almeno di stop alla fuga dei depositi di due banche,
Popolare Vicenza e Veneto Banca, dove il margine di intermediazione era
letteralmente precipitato. E infine: quali risultati si sarebbero ottenuti
prendendo il toro per le corna un anno prima? Quando le banche erano sì molto
più vive, ma la via della liquidazione coatta amministrativa con 37 deroghe
sarebbe stata impensabile.
Sono domande che possono
sembrare oziose, ma su cui sarebbe bene trovare delle risposte per non arrivare
del tutto impreparati ad affrontare le future crisi. Per capire, però, se le
soluzioni strappate negli ultimi mesi dal governo alla DGComp hanno avuto un
senso, bisogna porsi altre tre domande: 1) Davvero si può parlare di crisi
bancaria alle spalle, dopo tre anni da incubo? 2) Quanti soldi torneranno allo
Stato da Mps e dalle banche venete? 3) È la fine dell’Unione bancaria europea?
Crisi alle spalle?
Il ministro dell’Economia e finanze Pier
Carlo Padoan è stato netto, martedì 4 luglio, dopo aver incassato il via libera
dalla commissaria Margrethe Verstage alla ricapitalizzazione precauzionale di
Mps: «C’è un effetto positivo sui mercati, come se ci fosse una liberazione da
una situazione che ha caratterizzato per troppo tempo il nostro sistema
bancario e che inizia a essere veramente alle nostre spalle».
L’indice Ftse Banche Italia è salito, dopo il decreto del 25 giugno, di poco
meno del 10%, mentre lo spread Btp-Bund non ha ripetuto le impennate di inizio
giugno e si è invece stabilizzato tra i 160 e i 170 punti base.
I mercati hanno quindi reagito bene e
una mano l’ha data l’aumento di capitale di Carige, che poteva
essere vista, data la sua pesante eredità di crediti deteriorati in rapporto
agli impieghi, uno dei focolai di nuove tensioni. A oggi (si veda l’ultimo “Bollettino medico bancario” di Fabio Bolognini),
gli occhi vanno puntati, oltre che su Genova, sulla Banca Popolare di Bari. Ci sono poi le situazioni
molto critiche delle più piccole Carim, CariCesena e CR San Miniato, che
potrebbero finire a Cariparma (gruppo Crédit Agricole). E poi, come ha invitato a fare su Linkiesta Simone Galimberti, vale la pena non
sottovalutare il caso di Unipol Banca. In un incontro con la stampa, appena
successivo al decreto del 25 giugno, gli analisti di Banor si sono spinti a dire che ora è il momento
di considerare sostanzialmente finita la crisi delle banche italiane. Alla
stessa domanda, gli analisti di Pwc, martedì 4
luglio, hanno dato una risposta più articolata. In sintesi, i lati
positivi: il 2017 è un anno importante, perché le banche
stanno togliendosi dal groppone 60 dei 200 miliardi di sofferenze lorde che
pesavano sui loro bilanci alla fine del 2016 (per quanto l’uscita effettiva
degli Npl da Mps sarà nel 2018, ndr). È positivo che
ci siano casi a dir poco critici sulla via della risoluzione. La svolta c’è
stata con l’aumento di capitale di Unicredit, che ha
dato il segnale che non tutto quello che riguardava l’Italia era marcio. Ci
sono indicazioni, per quanto non fortissime, di ripresa del Pil e di
diminuzione della disoccupazione e di aumento delle transazioni del mercato
immobiliare. Infine, ci sono spinte che vanno colte in tema di gestione degli
stessi unlikely to pay: grazie alle linee guida di marzo della Bce e alle
recenti modifiche alla 130 del 1999 sulle cartolarizzazioni, le banche potranno
essere più proattive nella gestione di quelli che fino a poco tempo fa venivano
chiamati incagli.
Ma naturalmente ci sono anche i lati
negativi, che non possono far parlare di crisi finita: lo stock di Npl (incagli e crediti scaduti compresi)
rispetto agli impieghi è in Italia enorme: il 18%, a fronte di un
livello di allarme che la Bce fissa al 7%; la Spagna, dopo la cura della bad
bank di sistema, è scesa al 6%, la Francia è al 4%, la Germania al 2 per cento.
Tornare al 7% significa scendere dai 324 miliardi di fine 2016 a circa 125
miliardi. Una strada ancora lunga, considerato che finora si sono fatte operazioni
su grandi banche e che dall’anno prossimo si tratterà di vendere tanti
portafogli più piccoli. Inoltre, anche se il problema Npl
fosse risolto, rimarrebbe quello enorme della redditività. Le
banche dovranno pensare a come fare utili, focalizzarsi sui clienti,
ristrutturare i costi, in tempi di concorrenza crescente del Fintech e di tassi
ancora bassi. «Per tutti questi motivi, è necessario risolvere rapidamente il
problema degli Npl per concentrarsi sul core business» ha commentato Pier Paolo
Masenza, financial services deals leader di Pwc. «Vediamo però il bicchiere
mezzo pieno, poteva andare peggio».
La conclusione: è finita l’emergenza, non la crisi.
Quanto perde lo Stato?
Lo Stato potrà mai recuperare i soldi
che ha messo in Mps (3,9 miliardi più 1,5 per il rimborso degli obbligazionisti
subordinati retail) e nelle banche venete (3,5 miliardi più 1,2 per gestire
esuberi, oltre a 12 miliardi di garanzie)? La risposta dipende in primo
caso dal valore a cui venderà le azioni Mps, di cui ora è socio al 70%, nel
2021, quando dovrà uscire. È qualcosa che dipenderà da aspetti
macroeconomici, come la ripresa del Pil e un eventuale rialzo dei tassi di
interesse; ma anche, se non soprattutto, dalla riuscita del piano industriale,
appena presentato. La scommessa dei vertici di Mps è stata di puntare su
riduzione dei costi, tramite riduzione del personale con prepensionamenti
volontari e digitalizzazione, e su una focalizzazione sul credito alle Pmi.
Impresa non facile, ma il giudizio non può che essere aperto (si rimanda a
un approfondimento del blog Phastidio di Mario
Seminerio). Il primo tagliando sarà nel 2019.
Sul fronte delle banche venete, tutto
dipenderà, a questo punto, dai valori ai quali saranno vendute le sofferenze. La bad bank li ha
valutati a un prezzo del 46,9% del valore nominale; per le inadempienze
probabili, è stato calcolato che due terzi diventeranno sofferenze e un terzo
tornerà in bonis. In entrambi i casi sono proiezioni risultanti da uno studio di
Bankitalia sui tassi di recupero negli anni
2006-2015. Sono prezzi lontanissimi dai valori appena
strappati da Atlante per Mps. Come si giustificano? Per il fatto che
non c’è fretta di vendere e non ci sono finanziamenti a tassi oltre il 10% da
rimborsare. È la bad bank “paziente” che ha
potuto operare, in altro contesto ma con un meccanismo simile, in Spagna.
Quanto recupererà, però, alla fine questa bad bank, o meglio la Sga? Come ha
spiegato il professor Luca Erzegovesi (Università di Trento) in un post sul blog
Pane-e-finanza, una delle chiavi è la quantità di crediti in bonis che saranno scartati da Intesa Sanpaolo.
Sono garantiti dallo Stato con 4 miliardi di euro ma il governo ha calcolato
un fair value (cioè un’uscita probabile) di soli 400
milioni di euro. Considerato che molti di quei crediti sono il risultato di
prestiti baciati, è tutto da vedere che siano effettivamente
recuperabili. Erzegovesi giunge alla conclusione che le
perdite sono impossibili da stimare ma potrebbero essere anche di 3 miliardi
e oltre(teoricamente fino a 10). Su L’Economia del Corriere della Sera Federico
Fubini ha citato una possibile perdita di 3-4 miliardi.
Secondo i consulenti di Pwc una stima non è invece possibile, perché dipende
tra troppe variabili, come il valore effettivo delle attività non Npl
incorporate dalla bad bank (come le quote di Arca Sgr). Banca d’Italia, invece,
sostiene che la partita si potrebbe chiudere, nella migliore delle ipotesi, con
un guadagno per lo Stato di 700 milioni di euro.
Il precedente più citato, in questo
caso, è l’attività di recupero degli Npl a seguito del crac del Banco di Napoli da parte della stessa Sga.
Ci sono voluti 20 anni ma è stato recuperato il 92%, è stato ripetuto più volte
in questi giorni. Ma i ragionamenti generalmente non tengono conto degli aiuti
avuti dalla stessa Sga. Lo ha ricordato Luigi Zingales lo scorso autunno: una
quota consistente del recupero (oltre 3 miliardi secondo Zingales) derivano dai
prestiti a tassi agevolati che la Sga riceveva da Banca d’Italia all’1% (in
forza della cosiddetta “legge Sindona”) e che investiva in Btp che all’epoca
valevano il 6%. Sono inoltre molte altre le differenze tra il caso Banco di
Napoli e l’attuale situazione in Veneto. Su questo si rimanda a un post dedicato dello
stesso Erzegovesi.
Ci
dobbiamo dimenticare la garanzia unica sui depositi?
Un ultimo punto
chiave è che cosa succederà alla garanzia comune sui depositi bancari, ossia al
terzo pilastro mancante dell’Unione bancaria dell’Eurozona. È un tema che ha
sollevato, immediatamente prima del decreto del 25 giugno, Ferdinando Giugliano su Bloomberg View e poi lo stesso Luigi Zingales sul
Sole 24 Ore.
Il ragionamento è che questo aggiramento continuo e clamoroso delle regole
europee e in particolare della direttiva Brrd mette una pietra tombale sul
completamento dell’Unione bancaria, a causa dell’impossibilità di guadagnare la
fiducia dei Paesi rigoristi, a partire da Germania e Olanda. È una linea che è
risuonata più volte nelle analisi dei giornali britannici, tedeschi, ma anche
spagnoli, e che ha trovato importanti conferme in ambienti governativi
tedeschi, citati su La Repubblica da
Tonia Mastrobuoni. Quest’ultimo articolo spiega chiaramente come la mossa italiana offra un assist a chi si
opponeva alla garanzia comune sui depositi per altre ragioni:
la valutazione a rischio zero dei titoli di Stato detenuti dalle banche
italiane e l’eccessivo peso dei titoli di Stato nelle pance delle stesse
banche. Siamo quindi al capolinea? È un rischio concreto. A meno che non
prevalga la linea descritta a Linkiesta da
Jean Pisani-Ferry, consigliere economico del presidente francese Emmanuel
Macron: non affrontare un capitolo alla volta delle riforme europee, ma il loro
complesso. La discussione sull’Unione bancaria dovrebbe quindi andare di pari
passo con quella sul ministro delle Finanze europeo e sulle sue funzioni, che
Berlino vorrebbe soprattutto di controllo. In quest’ottica, non è detto che
bisognerà rinunciare alla garanzia sui depositi, ma il prezzo da pagare su
altri fronti da negoziare potrebbe essere pesante.”
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