Nella
lezione precedente abbiamo argomentato lungo una sequenza di D: deflazione,
divario tra necessità di oggi e fai-da te del passato, delicatezza,
diversificazione. Più specificatamente abbiamo esaminato i motivi per cui un
gestore non sa individuare a priori i migliori investimenti e, quindi, il
consulente non ci darà – a differenza di altri professionisti – la migliore
risposta, ma le migliori risposte, cioè un portafoglio ben D-iversificato.
Mentre un tennista, un golfista o un
motociclista, che è in vetta alla graduatoria mondiale, tende a far bene in
molte delle gare nel corso di un campionato, perché è effettivamente più abile
degli altri, non siamo sicuri che le cose funzionino così nel caso dei gestori,
almeno se il campionato dura dal 2007 al 2013, come si è visto alla fine della
lezione precedente. Sta di fatto che, se anche riuscissimo a definire il
profilo del bravo gestore, e non del più fortunato, questa definizione non
sarebbe sufficiente per i tempi lunghi, quelli cioè che interessano i
risparmiatori. Bisogna affidarsi a un consulente. Va anche precisato, tuttavia,
che la speranza non muore mai. Anche in un mercato antico, e quindi
teoricamente smagato, come quello statunitense, la maggioranza delle persone
continua a sperare di poter affidarsi a un gestore che è meglio della media. Ed
è comprensibile: alle persone non importa la media dei gestori, come nella
ricerca di Porter e Trifts che abbiamo visto nella lezione precedente. Alle
persone importa quello che fa il “proprio” gestore, se decide di affidarsi a
uno specifico gestore. Spesso poi non ha un gestore, ma un consulente, e il
consulente si affida a più prodotti e, talvolta, a più di un gestore nel
costruire e fare manutenzione di un portafoglio differenziato. Per ora possiamo
dire che la ricerca di Porter e Trifts, che aggiorna e conferma in dettaglio
quanto già si sapeva (cfr. Legrenzi, 2006, 2011), ci ricorda l’importanza del
consulente rispetto al gestore. Se il singolo gestore non sa prevedere in modo
sistematico, cioè sui tempi medi, quali siano i migliori investimenti anno dopo
anno, diventa cruciale il ruolo del consulente.
Il consulente, meglio di un gestore
che talvolta è “affezionato” alle sue scelte, può indurci a frazionare i nostri
risparmi in prodotti finanziari creati da gestori diversi. Disponiamo così di
un altro ottimo argomento per costruire una relazione onesta e duratura con i
nuovi clienti. Approfondiremo questi punti nelle prossime lezioni.
La speranza non muore mai: la
speranza di trovare un gestore che sappia fare meglio degli altri. A dire il
vero anche la stampa specializzata può indurci a non capire bene che abbiamo a
che fare con quelli che ho chiamato “esperti speciali”, perché non hanno “la
risposta giusta” ma “le risposte giuste”. La differenza tra il singolare e il
plurale è cruciale. Ad esempio, Plus 24, il supplemento al Sole24Ore di sabato
27 dicembre 2014, apre con una grande titolo in prima pagina: “Dove investire
nel 2015?”. Ma poi, sotto il titolo, subito corregge l’assertività fuorviante
del titolo. Un disegno auto-ironico accompagna la promessa del titolo: esso
mostra una mano i cui segni possono essere letti da un chiromante (dal gr.
tardo kheirómantis: ‘indovino per mezzo delle mani’). Poi, all’interno di Plus,
il forum dei principali gestori è molto cauto, più cauto del corrispondente
forum del 2013 dove tutti consigliavano (come peraltro quest’anno) di puntare
sulle azioni europee, e non su quelle statunitensi che già un anno fa erano più
care (in termini prezzi/utili). E poi abbiamo visto come sono andate le cose, a
dispetto delle previsioni di un anno fa!
Noi dobbiamo comunque cercare di far
accettare al nostro cliente che, nel caso dei risparmi, abbiamo a che fare con
un “esperto speciale”. Un esperto cioè che non conosce ogni volta le risposte
alla nostra domanda: qual è ora il miglior investimento? Se tale consapevolezza
non è maturata nella testa e nel cuore di un risparmiatore, allora sarà
inevitabilmente deluso dal mondo degli esperti, e sarà forte la tentazione di
fare di testa propria.
Quando poi le sue scelte personali
non producono gli effetti sperati, spesso il risparmiatore prende paura e tende
a rifugiarsi in ciò che è più noto e familiare.
La fiducia frettolosa nelle nostre
intuizioni ha condotto a una concentrazione estrema dei risparmi. Sono per due
terzi immobilizzati in case, e, per il resto, legati, per almeno il 90%, ai
destini dell’Italia. E questa scelta non deriva purtroppo da un sentimento
generoso di patriottismo, dal voler aiutare con i propri risparmi le sorti di
un paese vacillante. Al contrario, oggi molti sono disillusi e pentiti delle
scelte del passato, ad esempio la casa non piace più. In sintesi, con le parole
di Marco Liera (2014):
La colossale
disillusione nei confronti dell’investimento in immobili è dovuta al noto mix
nocivo di impennata delle imposte, ciclo negativo dei prezzi e delle
transazioni, incremento delle morosità tra i conduttori, aumento dello sfitto.
Varie condizioni insostenibili sono venute meno: l’uso degli immobili come
allocazione del “nero”, i limiti all’investimento all’estero in vigore fino al
1990, l’inflazione alle stelle degli anni 70 e 80, l’ignoranza delle alternative
di impiego, la modesta consulenza finanziaria di vari intermediari finanziari …
Un consulente razionale non avrebbe
mai legato il 90% dei risparmi al destino di un singolo paese, e per di più
piccolo. E tutto ciò dipende, alla fin fine, da come funziona la nozione di
controllo. Siamo delusi dallo scoprire che un consulente non ha le cose sotto
controllo nel senso che noi diamo a questo termine e, per converso, evitiamo di
capire che noi le controlliamo ancora meno stendendo un velo d’ignoranza sulle
conseguenze delle nostre scelte.
Il dato più curioso è che abbiamo
messo quasi un secolo a riconoscere quanto le nostre intuizioni siano
fuorvianti nel caso dei risparmi e, più in generale, quelle degli economisti in
campo economico. Anche se, per la verità, qualche economista aveva cercato di
mettere in guardia i colleghi. Già nel 1918, quasi un secolo prima che lo
psicologo Daniel Kahneman venisse premiato con il Nobel dagli economisti, John
Maurice Clark (1884-1963), che sarebbe diventato nel 1935 presidente dell’American
Economic Association, scriveva:
Il solo modo
con cui un economista può evitare di duplicare il lavoro degli psicologi
consiste nello studiare la psicologia degli specialisti. Affidarsi
semplicemente alle scelte degli individui, senza capire i motivi che ci stanno
dietro, può sembrare agli economisti un modo per liberarsi della psicologia …
Qualsiasi definizione di natura umana implica delle presupposizioni
psicologiche, implicite o esplicite. Solo se l’economista prende a prestito la
concezione dell’uomo dagli psicologi, la sua costruzione teorica potrà avere un
carattere esclusivamente economico. Se però non lo farà, non eviterà per questo
la psicologia. Piuttosto sarà costretto a fidarsi della “sua psicologia”, e
questa sarà una cattiva psicologia (p. 4).
Oggi a distanza di ottant’anni da
queste profetiche parole non siamo ancora riusciti a sostituire la psicologia
ingenua con quella scientifica. E una delle conseguenze è, purtroppo, il fatto
che molti risparmiatori sono ancora vittime di un concetto ingenuo di
diversificazione: un po’ di qua e un po’ di là! Un grande fallimento delle
scienze cognitive, come spiegherò nel mio prossimo libro “Sei esercizi facili”
(che uscirà in aprile per i tipi de l’editore Raffaello Cortina).
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