Quante volte, con i
vostri clienti, vi sarete domandati il motivo per cui dovete cercare di
spiegare sempre le stesse cose, perché le persone non imparano mai. Certo,
molte persone non provano neppure a capire, tanto si fidano di voi. Una
relazione però imbevuta di troppa fiducia, di troppa delega, non è buona cosa
nel vostro campo. La totale fiducia si rovescia talvolta improvvisamente in
totale mancanza di fiducia.
Resta il fatto che è
un po’ misterioso come mai le persone non riescano a cambiare punto di vista
rispetto alla loro rappresentazione ingenua di quel che si può e deve fare con
i risparmi. Non torno su questo punto che ho già approfondito in “Perché
gestiamo male i nostri risparmi”.
In questa serie di
lezioni voglio invece cercare di rispondere a domande che hanno più a che fare
con la relazione cliente-consulente:
Come mai si
continuano a compiere gli stessi errori?
Come mai il cliente
fa tanta fatica a capire quel che si dovrebbe fare con il suo portafoglio?
Io ho cercato di
capire come questo possa accadere. In fondo l’ho fatto per tutta la mia vita.
Ed è solo se capite alcuni dei meccanismi che ci rendono tanto impermeabili che
sarà possibile impostare bene la relazione con gli stessi clienti. Insomma è
bene capire di che pasta sono fatti.
Nei capitoli
precedenti vi ho parlato di come ho studiato il problema del 2 – 4 – 6 e del
libro che mi aveva cambiato la vita. Ora vi racconto come cercai di studiare il
secondo dei due problemi di Peter Wason, solo accennato nel libro già
menzionato (un libro ti cambia la vita!). Nel libro di Peter Wason questo
secondo problema era solo accennato (più spazio era dedicato al 2 - 4 - 6). Nei
decenni successivi, divenne il più famoso rompicapo della psicologia del
pensiero. E’ un test delle nostre capacità mentali e della possibilità di
allenarle. E’ stato anche il banco di prova per tutte le teorie
sull’intelligenza umana che, da allora, si sono avvicendate sulla scena della
psicologia. E’ stato chiamato in più modi: compito di selezione (selection task
è il nome scelto da Wason) o problema delle quattro carte. Le numerose versioni
del problema sono derivate tutte dalla sua originale forma astratta. Eccola.
Qui sotto vedete
quattro carte, ognuna delle quali presenta una lettera su un lato e un numero
sull’altro lato. Le prime due sono girate dal lato della lettera, le seconde
due dal lato del numero. Voi sapete che queste carte sono state costruite sulla
base della seguente regola: “Se c’è una A su un lato della carta, allora
c’è un 2 sull’altro lato”
Il vostro compito è
indicare quali carte bisogna girare per stabilire se questa regola è vera o
falsa.
A B 2 5
Perché il
problema è interessante
All’inizio degli anni
Sessanta del secolo scorso imperava, tra gli studiosi dell’intelligenza, la
teoria dello svizzero Jean Piaget. Egli aveva studiato soprattutto lo sviluppo
dell’intelligenza descrivendo le varie fasi di maturazione delle capacità intellettive,
dal bambino fino all’adulto. Secondo Piaget, un adulto dovrebbe essere capace
di accertarsi della verità o della falsità di un’ipotesi condizionale. Più
precisamente, dovrebbe essere capace di indicare quegli stati di cose che
potrebbero dimostrare che un’affermazione condizionale è falsa. In effetti, se
dico: “Se piove, prendo l’ombrello”, si capisce che qualcosa non va se esco
sotto la pioggia senza ombrello. La teoria di Piaget coincide dunque con il
buonsenso. A prima vista sembrerebbe che sia facile capire in quali scenari la
mia affermazione “Se piove, prendo l’ombrello” potrebbe essere falsa. Lo è
quando piove, ed io non prendo l’ombrello. Semplice, a prima vista.
Potete provare con
qualsiasi frase:
Se Paolo vede una
polpetta, la mangia
Se Vittorio vede una
polpetta, la ignora
Chi deve mangiare la
polpetta o ignorarla secondo queste due frasi? Ovvio. Talmente ovvio che
nessuno aveva mai provato a inventare un test delle capacità di pensiero simile
a quello di Peter Wason. E tuttavia, se le persone fossero sempre capaci di
individuare ciò che potrebbe rendere falsa e ciò che potrebbe rendere vera
un’affermazione condizionale, la prova di Peter Wason non avrebbe dovuto creare
problemi a nessuno. Insomma, le persone avrebbero dovuto scegliere la carta con
la A e quella con il 5. Si tratta della combinazione che rende falso il
condizionale:
Se c’è una A su un
lato della carta, allora c’è un 2 sull’altro lato
Infatti, se dietro la
A ci fosse il 5 il condizionale sarebbe falso. E, se dietro il 5 ci fosse una
A, il condizionale sarebbe parimenti falso. Non è necessario scegliere le altre
due carte. Nessuna di esse potrebbe essere un controesempio della regola,
dimostrarne cioè la falsità. Queste scelte sono quelle che le persone, secondo Piaget, avrebbero dovuto fare. E tuttavia la maggioranza delle
persone interpellate non le faceva. Le risposte tipiche erano la carta con la A
e la carta con il 2, oppure solo la carta con la A (e voi, come avreste
risposto?).
La scoperta di Wason, un po’ alla
volta, si diffuse tra gli psicologi e iniziò quell’opera di demolizione della
teoria di Piaget, di cui lui non era poi il solo responsabile. Da duemila anni,
infatti, la maggioranza degli studiosi pensava che la razionalità degli adulti
coincidesse con la capacità di pensare secondo le regole della logica. Piaget
non faceva altro che continuare questa tradizione. Nessuno lo aveva mai messo
in dubbio. Anzi, nessuno aveva neppure provato a metterla in dubbio. Peter
Wason provò, e riuscì.
Dagli anni Sessanta del secolo
scorso sappiamo che la logica ha ben poco a che fare con i modi di pensare
delle persone comuni. In psicologia, tuttavia, i risultati negativi non sono
mai così istruttivi. Dimostrare che non riusciamo a fare una cosa che, secondo
Piaget, avrebbe dovuto essere facile, non ci fa avanzare molto. E’ abbastanza
comprensibile che, per vari motivi, sia difficile risolvere alcuni problemi.
Molto più istruttivo è il confronto tra le condizioni in cui non riusciamo a
fare qualcosa e quelle in cui riusciamo a fare la stessa cosa, o qualcosa di
analogo. Questa differenza, lo scarto cioè tra capacità e incapacità di fronte
a problemi analoghi, è la chiave per capire come funzionano i meccanismi del
pensiero. Perché in quel caso sì, e in quell’altro no? La psicologia funziona
così. Vive di dettagli, come d’altronde la nostra esistenza (anche quella delle
aziende e dei prodotti).
Alice Munro, venerata dagli
psicologi del pensiero perché considerata la regina del dettaglio (cfr. i miei
pezzi su Repubblica), scrive la sua prima storia cambiando la Sirenetta di
Andersen. Nella versione della dodicenne Munro, la Sirenetta, pur tra atroci
sofferenze, impara a camminare: “Non mi preoccupavo del fatto che il resto del
mondo non conoscesse mai la versione nuova, perché, dopo averla pensata, mi
sembrava che esistesse comunque” (Repubblica, 11/12/2013, in occasione del
Nobel). Fantastico. Pura psicologia del pensiero.
La prima volta che feci il
compito di selezione sbagliai. Quello che pensai, subito dopo, fu forse simile
a quello che viene in mente a chiunque abbia scelto le carte A e 2. Come non
accorgersi che scegliere il 2 è inutile, mentre non si sarebbe dovuto
tralasciare il 3? In effetti, a ben vedere, perché scegliamo la carta con A?
Perché se dietro, invece di un 2, c’è un 3, la regola è falsa. E allora come
mai dimentichiamo di scegliere il 3? Se dietro il 3 c’è una A, la regola è
parimenti falsa. Anzi, potrebbe essere la stessa carta una volta girata da un
lato, e l’altra volta girata dall’altro lato!
La mia idea era che la cecità
fosse dovuta al fatto che la regola era calata dall’alto. Una sorta di
rompicapo che ci mette alla prova e ci intimorisce. Di primo acchito, non
capiamo bene il senso di quella regola, a meno di non considerare il tutto come
un gioco da Settimana Enigmistica. Ora gli psicologi del pensiero usano questi
rompicapo un po’ assurdi – gli stessi impiegati nei test d’intelligenza - non
perché siano sadici, o per intimorire e mettere a disagio. Devono farlo per
ragioni metodologiche, per mettere tutti sullo stesso piano. Vanno quindi
impiegati dei test che nulla hanno a che fare con la vita, proprio per
annullare il ruolo dell’esperienza passata di chi partecipa all’esperimento. Le
esperienze passate dei partecipanti potrebbero essere diverse, e quindi i
partecipanti potrebbero non trovarsi su un piede di parità. E quindi, anch’io,
non pensavo di modificare il materiale astratto e, diciamolo pure, un po’
astruso. Supponevo di dover continuare a usare numeri o disegni. Provai invece
a cambiare il modo con cui si arriva la regola. La mia idea era che la persona
formulasse personalmente la regola con cui poi doveva cercare di risolvere il
problema, quando gliel’avessi presentato con la “sua” regola.
Questa idea mi era venuta perché
ricordavo le mie esperienze alle scuole elementari. Durante gli anni
dell’università, avevo insegnato alle magistrali e mi offrivo sempre volontario
per i tirocini, dove le future maestre si impratichivano a interagire con i
bambini. Ebbene, gli allievi di quell’età si allenano a ragionare solo se
incuriositi dai giochi. Quanto più sono loro a stabilire le regole del gioco,
anzi a trovarle, tanto più si appassionano, e tanto più abili diventano.
Costruii un mazzo di carte. Maria
Sonino, la sperimentatrice, le presentava alle persone. Diceva loro se ogni
carta seguiva, oppure no, una regola che loro avrebbero poi dovuto formulare.
Per fare questo dovetti modificare un po’ le carte rispetto a quelle originali
usate da Peter Wason. Feci dei cartoncini su cui erano disegnate due figure, un
triangolo e un cerchio. Le due figure erano collocate, una a fianco dell’altra,
sul lato visibile del cartoncino.
In sostanza, c’era un mazzo
composto di quaranta carte con quattro tipi di disegni: con due cerchi, con due
triangoli, con un triangolo a sinistra e un cerchio a destra, e, infine, con un
cerchio a sinistra e un triangolo a destra. Maria Sonino teneva in una mano il
mazzo di carte. Lentamente, con l’altra mano, le faceva scorrere mostrandole a
colei/colui che partecipava all’esperimento. E ogni volta diceva, come in una
giaculatoria: “questa segue la regola, questa segue la regola, questa non segue
la regola, questa segue la regola …, “ e così via. Le sole carte che non
seguivano la regola erano quelle con il cerchio a sinistra e con il triangolo a
destra. Quando il partecipante era convinto di aver individuato la regola, a
forza di casi positivi (molti) e negativi (pochi), la scriveva su un foglio di
carta.
Già i risultati di questa prima
fase dell’esperimento furono interessanti. Scoprii che non è naturale e
spontaneo usare il condizionale per descrivere questo stato di cose.
L’espressione più usata era una semplice descrizione:
Due figure uguali, se differenti
il triangolo a sinistra e il cerchio a destra.
O anche la seguente descrizione:
Due cerchi, due triangoli, un
triangolo a sinistra e un cerchio a destra.
La maggioranza delle trenta
persone descriveva solo le situazioni che seguivano la regola usando
espressioni disgiuntive e congiuntive. Solo tre persone si espressero in
termini negativi, escludendo il caso che non seguiva la regola:
Non c’è un cerchio a sinistra e
un triangolo a destra.
Un risultato importante perché
mostra quello che era stato intuito da Wason, e che poi Johnson-Laird avrebbe
sviluppato nella teoria dei modelli mentali. L’architrave di questa teoria è il
principio di verità. In sintesi: alle persone interessa ciò che è vero. Di
conseguenza noi ci rappresentiamo il mondo previlegiando ciò che è vero, e
tralasciando ciò che è falso. Questo, è il motivo, secondo Johnson-Laird, per
cui le persone falliscono nei due compiti di Wason e in tante altre prove. Come
aveva detto Peter Wason (1968, p. 145):
Il bisogno di dimostrare la
“verità” dell’affermazione ha finito col prevalere sull’istruzione impartita
per dimostrarne la falsità. Questa palese predisposizione alla verifica è
analoga alla tendenza emersa con il problema 2 – 4 - 6.Queste parole di Peter
Wason spiegano l’essenza del modo di pensare dei vostri clienti. Loro si
domandano e vogliono sapere da voi quel che è vero, e quel che accadrà. E
tuttavia, nella teoria del portafoglio, è altrettanto importante tener conto di
quel che non accadrà. E’ la differenza tra previsioni che si avverano e
previsioni che non si avverano. Questa differenza viene annullata da una buona
diversificazione. La premessa per capire il senso di una buona diversificazione
sta nelle domande:
E se le cose non stessero così?
E se non andassero come penso?
Come potrei sapere se ho torto?
Pochi capiscono il senso di
queste domande, e pochi quindi diversificano. Se un consulente vuole capire
perché ciò accade, e perché non è facile la relazione cliente/consulente, è
forse consigliabile che conosca i punti che tratterò nelle prossime lezioni.
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