Nei miei precedenti articoli ho toccato il tema
della crisi italiana, i suoi effetti sulla difficoltà di produzione di nuova
ricchezza e la vitale necessità di un’oculata gestione della componente
finanziaria del proprio patrimonio ormai destinato a una progressiva riduzione
nel tentativo di mantenere il più a lungo possibile il tenore di vita a cui
eravamo abituati solo fino a pochi anni fa.
Se andiamo a ben guardare però non sono le attività
finanziarie quelle detenute in misura maggiore dai risparmiatori italiani, bensì
quelle immobiliari; queste ultime infatti pesano per un 60% scarso della
ricchezza totale dei nostri concittadini, una concentrazione piuttosto elevata
rispetto agli altri paesi europei e molto maggiore rispetto alla realtà
statunitense.
Per essere precisi i dati di fine 2013 misuravano
questa ricchezza in poco meno di 5.000 Miliardi di Euro (ca. 200.000 Euro per
famiglia) a fronte di investimenti finanziari pari a 3.800 Miliardi di Euro. Fa
riflettere il vistoso calo dei titoli pubblici sceso a poco meno del 5%, una
percentuale molto bassa rispetto al recente passato. Disaffezione dunque per i
titoli di stato ma ancora un forte legame affettivo per le abitazioni.
Questa situazione, lo sappiamo bene, è stata non
solo figlia del naturale desiderio di possesso dell’abitazione nella quale si
vive ma altri fattori l’hanno favorita. In primo luogo lo sviluppo demografico
accompagnato dalla disgregazione della famiglia patriarcale. Dal secondo
dopoguerra si è enormemente incrementato il numero di nuove coppie desiderose
di indipendenza e, di conseguenza, la richiesta di nuove abitazioni è stata
costantemente alimentata.
Il prezzo delle abitazioni è andato via via
aumentando, sospinto dalla domanda e dalle disponibilità crescenti che lo
sviluppo andava costantemente formando e, in assenza di un mercato trasparente
in grado di fornire una loro continua e precisa valutazione, ha indotto gli investitori
a ritenere che i valori immobiliari fossero inevitabilmente crescente.
In quegli
anni banche, costruttori, immobiliaristi, politici, contribuirono a sostenere e
ad alimentare il fenomeno, direttamente interessati in quanto percettori di
forti flussi di utile e così tutto è durato oltre ogni ragionevole livello.
Dal 2008 la situazione è profondamente mutata e i
risparmiatori italiani hanno scoperto una diversa e meno appagante realtà.
E’ sopraggiunta la più dura
crisi del dopoguerra in tutta l’area occidentale ma da noi ha incrociato un
Paese in fase di deindustrializzazione e sofferente per un mercato del lavoro
inefficiente, una società poco evoluta, impregnata di privilegi e
corporativismi, assolutamente priva di collaudati meccanismi di mobilità
sociale.
La crisi dunque non ha
trovato un Paese pronto e abituato a mobilitarsi per affrontare l’emergenza e a
rimboccarsi le maniche, ma un paese
ancora spaccato fra realtà industrializzate e non, fra cittadini ligi delle
norme e cittadini che sistematicamente le violano, in piena crisi politica nel
quale l’unico punto d’appoggio per i singoli cittadini è costituito dalla
famiglia o, peggio, dal clan.
La crisi ha pertanto falcidiato
- come ovunque nel mondo - il valore degli immobili (che nonostante ciò sono
attestati a livelli tali da non consentire ai giovani di comprare casa, nemmeno
con mutui a 40 anni … ).
In questa situazione
l’intera nuova generazione si è trovata nella vana e disperata ricerca di un
lavoro che non solo non si trova, ma che addirittura sfugge di mano ai loro
genitori; l’alternativa, unica, il lavoro precario, con stipendi bassi e
prospettive mortificate.
Se capita
ai figli dei proprietari di immobili di ereditare l’abitazione dei genitori non
solo non riescono a mantenerla ma sempre più spesso si affrettano a venderla a
prezzi di realizzo poiché la loro necessità è quella di fare cassa, cosa che
purtroppo li accomuna in ciò anche a molti proprietari.
Ci si
trova sempre più spesso dunque ricchi di patrimonio ma con le tasche vuote e in
questo caso cosa si può fare? Si può andare al supermercato e pagare con un
balcone o una dozzina di mattonelle? Non si può, ovviamente; si vende l’intera
abitazione o, se si trova la banca disponibile (sempre che ci sia), si contrae
un nuovo mutuo e si spera di riuscire a pagarlo.
Questo
fenomeno produrrà nel tempo nel settore immobiliare un’ulteriore lievitazione
della parte offerente a scapito della tenuta dei prezzi già decisamente
compressi proprio in virtù della compressione, presente e futura, dei redditi
da lavoro.
Forse sarà superfluo
ricordarlo, c’è anche una questione tutt’altro che secondaria, quella
dell’enorme cementificazione e le devastanti alluvioni autunnali ce lo stanno a
ricordare. La cementificazione è enorme e Il rapporto fra abitazioni e
popolazione è denso; non abbiamo pertanto necessità di incrementare
ulteriormente il patrimonio immobiliare esistente ma al massimo quella di farne
un’utile manutenzione.
La popolazione sta
diminuendo, i flussi migratori non sono più unidirezionali in arrivo (e
comunque in sensibile calo) ma masse crescenti di connazionali emigrano in
cerca di opportunità che non riescono più a trovare in Italia; l’unico motivo
per supportare l’edilizia sta nel fatto che, producendo reddito, ci sta una
vasta platea di operatori interessati a trarne vantaggio; umanamente
comprensibile e condivisibile ma razionalmente inutile, se non addirittura
dannoso per la società nel suo complesso.
Ci vorranno ancora parecchi
anni per ritornare in un punto di equilibrio. Ma ora viene “il bello”, si fa per dire - e
non sto parlando di inquilini che non pagano l’affitto o lo danneggiano, di
case occupate abusivamente, di costi di manutenzione sempre più elevati, di
immobili finiti sott’acqua o danneggiati da smottamenti o devastati da
movimenti tellurici (purtroppo sì visto che si è costruito dovunque e molto
spesso in zone ad elevato rischio idrogeologico) – sto parlando della questione
fiscale.
Credo sia chiaro a tutti
che nella situazione in cui grava il settore produttivo del nostro Paese, per
una ineludibile questione di competitività, non ci si possa accanire
ulteriormente sotto il profilo fiscale sui redditi d’impresa. Le imposte personali
sui redditi ci collocano nei primissimi posti della classifica europea senza
peraltro poter avvicinare il livello qualitativo dei servizi sociali dei paesi
con i quali ci confrontiamo e le imposte indirette sono ad un livello già molto
elevato. Non parliamo poi di accise, balzelli ed ammennicoli vari.
Colmato il gap con gli
altri paesi europei in termine di tassazione delle rendite e dei guadagni in
conto capitale degli investimenti finanziari, settore già debole a causa della
propensione al risparmio in caduta libera dove si dirigerà la poderosa e
spietata macchina dell’imposizione fiscale nel Belpaese? Comodo e visibile, eccolo
là … il patrimonio immobiliare, il futuro destinatario dei prossimi
inasprimenti.
Fra tassazione sì,
tassazione no, tassazione forse, ora siamo ben certi che gli immobili sono e
saranno tassati e la base imponibile sarà individuata nel modo più adeguato per
essere quantomeno equa in base al reale valore dell’immobile. Ce l’hanno
promesso e diamolo per scontato.
Ma non finirà qua. Ci
ricordiamo che esiste una tassa di cui si è forse persa memoria in questi anni?
Questa tassa si chiama imposta di successione e l’Italia è molto lontana dagli
standard europei. Sembrerebbe quasi fosse stata messa da parte, pronta
all’utilizzo in caso di necessità; una tassa che funziona come una ruota di
scorta. Se si sgonfia ulteriormente il gettito eccola là, bella pronta, qualche
ritocco e dopo averla messa in un cantuccio per qualche anno la vedremo uscire
dal cilindro del ministro di turno, come un coniglio bianco da quello del
prestigiatore.
Per prima cosa si andrà ad
agire sulla franchigia di esenzione, ora pari a 1 Milione di Euro per ciascun
erede, e la tassa parte dal 4% per coniuge e figli. Le indiscrezioni che sono
circolate (nel caso più doloroso per le tasche dei contribuenti) parlano di
un’esenzione ridotta a soli 100.000 Euro e un’aliquota minima del 20%. Sono
indiscrezioni e dunque vanno prese con grande cautela ma comunque ci forniscono
un’ipotesi di calcolo. Supponiamo di possedere immobili per un valore di 1.000.000
Euro ai fini di questa imposta. Oggi l’imposta è azzerata, ma se fossero
applicati i limiti anzidetti la tosatura arriverebbe a 180.000 Euro nel caso
esposto.
Sotto un certo profilo peggiore,
se l’ipotesi fosse realizzata, sarebbe la situazione per gli eredi di immobili
di valore più basso, quelli che normalmente sono nelle disponibilità delle famiglie
meno abbienti, già poco dotate di mezzi finanziari. Supponiamo che l’immobile
ereditato valga 300.000 Euro, l’imposta corrispondente sarebbe di “soli” 40.000
Euro, certamente inferiore ma calerebbe su un patrimonio finanziario molto più
contenuto.
Quale l’effetto dunque? Innanzitutto
gli eredi, diversamente da ora, si dovranno di fatto ricomperare una parte
della proprietà immobiliare che ereditano.
Sul mercato immobiliare,
già esangue di suo, questa sarebbe un’ulteriore mazzata. Forse la conferma di
una crisi non più transitoria, ma strutturale.
Forse, nel pensare agli
immobili, tanto amati in passato dagli italiani come veicoli di investimento
(al di là di una sana logica di diversificazione per i patrimoni elevati) si
tornerà alla loro natura di beni a ciclo pluriennale destinati ad uso personale
(da cui agio, comodità, sicurezza, ecc. per sé e per la propria famiglia)
abbandonando l’idea di una convenienza reddituale e finanziaria che già ora non
hanno e che in prospettiva riavranno forse solo fra qualche decennio.
In conclusione forse non la
fine di un’epoca ma certamente un brusco risveglio in un’amara realtà.
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