domenica 18 gennaio 2015

Laboratorio Swiss & Global - Lezione N. 111 – Il trilemma del consulente e l’incontro con nuovi clienti


L’editoriale del 1° dicembre di Carlo Benetti è stato dedicato al tri­lemma del risparmiatore. I tre corni del trilemma discussi da Benetti sono costituiti dal fatto che si è di fronte al seguente scenario: rendimenti ai minimi storici delle obbligazioni governative dei paesi avanzati, obbligazioni societarie con rendimenti altrettanto bassi in rapporto al rischio, e azioni ai massimi storici. Non torno su questo punto esposto brillantemente da Benetti. Mi limito invece a osservare che anche la materia che tratto con Voi è un trilemma, nel senso che siamo di fronte a un triangolo che ha tre vertici: cliente, portafoglio e consulente. 


E’ facile soddisfare due corni alla volta di questo trilemma. Se non ci fosse il cliente, ma solo il portafoglio, il consulente lo gestirebbe agevolmente. E facilmente accontenterebbe un cliente che non sapesse nulla del suo portafoglio. A sua volta, un cliente crede di fare bene anche senza un consulente, e fa di testa sua, non ha a che fare con un trilemma, ma solo con il dilemma di scegliere gli investimenti. E’ soddisfatto, anche se, obiettivamente, l’esito di tale scelta è stato disastroso, come ho mostrato più volte (evidenziando lo s-bilanciamento del risparmio italiano nel suo complesso).

E ovviamente anche il rapporto tra un cliente e il suo consulente sarebbe ottimo in assenza di portafoglio: sarebbero semplicemente due amici. Il bello e il brutto, in conclusione, è che invece siamo di fronte a una triade, e quindi a un trilemma, e spesso ci tocca affrontare la triade sacrificando qualcosa. La storia di questi sacrifici è l’oggetto, in sintesi, delle nostre conversazioni e della nostra rubrica. Per questo continuo le mie lezioni affrontando un vertice alla volta. In questo caso la situazione specifica in cui un consulente incontra per la prima volta un potenziale cliente. Che cosa ci dice la psicologia di questo tipo di incontri?

La tacita competenza sociale, innescata dal corto circuito tra il viso di una persona e la sua presunta personalità, si può studiare con una tecnica diversa rispetto a quella della scuola di Todorov, di cui ho parlato nelle lezioni precedenti.

Nalini Ambady e Robert Rosenthal (1993) hanno filmato tredici professori di Harvard nel corso di una singola lezione. Poi hanno tagliato tre piccoli pezzi di dieci secondi ciascuno, all’inizio, in mezzo, e alla fine della lezione. Soltanto in base alla visione di questi tre pezzi, che duravano in tutto mezzo minuto, sono stati formulati dei giudizi sulle consuete dimensioni con cui gli studenti statunitensi valutano le capacità di un insegnante (competenza, serietà, calore, chiarezza, e così via). Ebbene, tali giudizi erano molto correlati con quelli effettivamente formulati dopo un mese di corso, anche se le tre mini-fette della singola lezione venivano ridotte a due secondi ciascuna. Questa è una conferma della forza della prima impressione e, soprattutto, della sua inerzia.

Si è cercato di capire, alla luce di molti esperimenti, se le persone sono consapevoli di funzionare in questo modo (Myers, 2004, parte prima). Per esempio, inizialmente negli Stati Uniti, ma ora anche altrove, si è affermato il costume di prendere appuntamenti a scopi sentimentali con sconosciuti dell’altro sesso, fidandosi di una foto e di una descrizione generica, e sperando di capire se ci sono le basi per una relazione duratura. Situazione questa non così dissimile da quella di alcuni emigranti italiani di un tempo. Forse ricorderete il film “Bello, onesto, emigrato Australia, sposerebbe compaesana illibata” di Luigi Zampa (1971), con Alberto Sordi che promette un matrimonio per posta a Claudia Cardinale, purtroppo delusa quando poi lo incontra, perché la foto inviata era quella di un uomo più bello di lui.

Le ricerche citate confermano che la prima impressione è spesso decisiva. Se poi si chiede alle persone di analizzare la genesi di questa prima impressione, si scopre che le persone non sono capaci di farlo. Spesso attribuiscono il successo oppure l’insuccesso delle fasi successive al primo incontro non alla percezione iniziale, giusta o sbagliata che fosse, ma ad altri fattori, razionalizzando così a posteriori la loro precipitosa decisione iniziale. Il fenomeno è molto forte nella scelta per chi votare, soprattutto da quando hanno preso piede i dibattiti televisivi (Kahneman, 2012). Le persone scelgono un candidato formandosi velocemente un’impressione superficiale, ma poi giustificano la loro scelta o il loro rifiuto con criteri apparentemente più ponderati e razionali (Olivola e Todorov, 2010). Le ricerche, tuttavia, mostrano che ci si comporta così non perché si provi vergogna o reticenza nell’ammettere il nostro vero criterio di scelta: semplicemente non ce ne rendiamo conto, e ci auto-inganniamo. Questa differenza emerge anche nell’altro senso: provate a chiedere alle persone i criteri con cui sceglierebbero in un negozio un poster o un abito. Dopo che hanno reso espliciti in modo dettagliato questi criteri, le persone sono invitate alla scelta. Ebbene, la scelta guidata dai criteri si rivela meno soddisfacente, sui tempi lunghi, di quella fatta con una prima occhiata. E’ come se il rendere esplicito un sapere, che per solito è tacito e non trasparente, finisca per confonderci le idee (cfr. Myers, 2004, Baron, 2014).

Gli studi sui modi taciti di gestire le relazioni sociali nella quotidianità mostrano che la rapidità nel formarci un’impressione della persona che abbiamo davanti è funzionale a una rapida categorizzazione della persona in termini di stile e personalità abituali. La categorizzazione, a sua volta, serve a ridurre l’incertezza del mondo sociale perché presumiamo che le persone, una volta classificate, diventino prevedibili perché si comporteranno nei modi abituali della categoria in cui le abbiamo messe (cfr. Legrenzi, Umiltà, 2014).

Ci sono due ambiti professionali che, da questo punto di vista, sono particolarmente interessanti: gli psicoterapeuti e i consulenti finanziari. Entrambe le professioni hanno a che fare con problematiche riservate o, per lo meno, con relazioni interpersonali che richiedono fiducia oltre che expertise da parte della persona a cui ci rivolgiamo. Il modo con cui psicoterapeuti e consulenti interagiscono con i loro clienti è indicativo di un’importante dimensione sociale della conoscenza tacita quotidiana.

Come fa, secondo Hobson (2013, pp. 11-15), uno psicoterapeuta a formarsi un’idea del suo cliente? In sintesi, egli raccoglie i seguenti tipi di informazioni:

  1. v  età, classe sociale, religione, situazione finanziaria, familiare, e tutte le altre più importanti variabili sociologiche, oltre a quelle più legate al suo privato, alla sua storia personale;
  2. v  racconti e storie, durante gli incontri con lo psicoterapeuta, e, soprattutto, quello che il cliente reputa importante comunicare, indipendentemente se ciò si rivelerà vero o falso;
  3. v  il tipo di relazione che il cliente intrattiene con lo psicoterapeuta, il tipo di ingaggio, e il contratto implicito che via via si sviluppa.


Tutte queste informazioni sono utili anche a un consulente finanziario, ma la tecnica di raccolta delle informazioni può divergere. Uno psicoterapeuta, per solito, può usare una tecnica più invasiva, che è resa plausibile, e accettabile dal cliente, alla luce del fatto che il cliente si è rivolto a lui con il desiderio di risolvere alcuni problemi.

Insomma lo psicoterapeuta si trova di fronte un dilemma (Hobson, 2013). Al contrario un consulente finanziario ha di fronte un cliente interessato a una terza entità, e cioè la gestione dei risparmi, e non ha la minima idea dei problemi dei suoi risparmi, se non un generico senso d’impreparazione e insicurezza (di qui il trilemma iniziale!). Dato che il cliente ignora anche il rapporto tra i suoi risparmi e il suo piano di vita, un buon consulente finanziario ha, per lo meno all’inizio, un atteggiamento passivo di ascolto, uno stile non invasivo, un appiattirsi sui desideri del cliente. Posto di fronte al trilemma da cui siamo partiti, favorisce il cliente rispetto al portafoglio. Malgrado questa differenza, i consulenti dell’animo, e quelli del benessere economico, hanno in comune una cosa che li differenzia dalla psicologia sociale ingenua della vita quotidiana. In entrambe le professioni, non è bene fidarsi della prima impressione:

I primi cinque o dieci minuti di consulenza possono contenere molto di quello che poi ci guiderà nella comprensione del paziente, ma questi pochi minuti iniziali non ci permettono di capirlo. Possiamo registrare mentalmente quello che succede, ma ignoriamo il loro significato più generale, e non sappiamo se si tratta di informazioni rilevanti. Tutto quello che possiamo presumere, all’inizio, è che quello che succede in quei primi minuti è l’avvio per una lunga strada, ricca di problemi, su cui dobbiamo lavorare con il paziente. La speranza del terapeuta è di capire, ma solo alla fine del percorso, il significato di questa fase iniziale (Hobson, 2013, p. 73).


Questa pazienza iniziale, e questa capacità di sospendere il giudizio, costituisce la principale differenza tra il modo di agire di questi due tipi di esperti e i nostri modi di fare quotidiani, innescati da intenzioni inespresse e conoscenze tacite. Queste ultime sono caratterizzate da assenza di dilemmi, e quindi rapidità, sia nel formarsi della prima impressione, sia nella tendenza a catalogare le persone in modo da renderle prevedibili.

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