L’editoriale del 1° dicembre di Carlo Benetti è stato
dedicato al trilemma del risparmiatore. I tre corni del trilemma discussi da Benetti sono costituiti
dal fatto che si è di fronte al seguente scenario: rendimenti ai minimi storici
delle obbligazioni governative dei paesi avanzati, obbligazioni societarie con
rendimenti altrettanto bassi in rapporto al rischio, e azioni ai massimi
storici. Non torno su questo punto esposto brillantemente da Benetti. Mi limito
invece a osservare che anche la materia che tratto con Voi è un trilemma, nel
senso che siamo di fronte a un triangolo che ha tre vertici: cliente,
portafoglio e consulente.
E’ facile soddisfare due corni alla volta di questo
trilemma. Se non ci fosse il cliente, ma solo il portafoglio, il consulente lo
gestirebbe agevolmente. E facilmente accontenterebbe un cliente che non sapesse
nulla del suo portafoglio. A sua volta, un cliente crede di fare bene anche
senza un consulente, e fa di testa sua, non ha a che fare con un trilemma, ma
solo con il dilemma di scegliere gli investimenti. E’ soddisfatto, anche se,
obiettivamente, l’esito di tale scelta è stato disastroso, come ho mostrato più
volte (evidenziando lo s-bilanciamento del risparmio italiano nel suo
complesso).
E ovviamente
anche il rapporto tra un cliente e il suo consulente sarebbe ottimo in assenza
di portafoglio: sarebbero semplicemente due amici. Il bello e il brutto, in
conclusione, è che invece siamo di fronte a una triade, e quindi a un trilemma,
e spesso ci tocca affrontare la triade sacrificando qualcosa. La storia di
questi sacrifici è l’oggetto, in sintesi, delle nostre conversazioni e della
nostra rubrica. Per questo continuo le mie lezioni affrontando un vertice alla
volta. In questo caso la situazione specifica in cui un consulente incontra per
la prima volta un potenziale cliente. Che cosa ci dice la psicologia di questo
tipo di incontri?
La tacita
competenza sociale, innescata dal corto circuito tra il viso di una persona e
la sua presunta personalità, si può studiare con una tecnica diversa rispetto a
quella della scuola di Todorov, di cui ho parlato nelle lezioni precedenti.
Nalini Ambady
e Robert Rosenthal (1993) hanno filmato tredici professori di Harvard nel corso
di una singola lezione. Poi hanno tagliato tre piccoli pezzi di dieci secondi
ciascuno, all’inizio, in mezzo, e alla fine della lezione. Soltanto in base
alla visione di questi tre pezzi, che duravano in tutto mezzo minuto, sono
stati formulati dei giudizi sulle consuete dimensioni con cui gli studenti
statunitensi valutano le capacità di un insegnante (competenza, serietà,
calore, chiarezza, e così via). Ebbene, tali giudizi erano molto correlati con
quelli effettivamente formulati dopo un mese di corso, anche se le tre
mini-fette della singola lezione venivano ridotte a due secondi ciascuna.
Questa è una conferma della forza della prima impressione e, soprattutto, della
sua inerzia.
Si è cercato
di capire, alla luce di molti esperimenti, se le persone sono consapevoli di
funzionare in questo modo (Myers, 2004, parte prima). Per esempio, inizialmente
negli Stati Uniti, ma ora anche altrove, si è affermato il costume di prendere
appuntamenti a scopi sentimentali con sconosciuti dell’altro sesso, fidandosi
di una foto e di una descrizione generica, e sperando di capire se ci sono le
basi per una relazione duratura. Situazione questa non così dissimile da quella
di alcuni emigranti italiani di un tempo. Forse ricorderete il film “Bello,
onesto, emigrato Australia, sposerebbe compaesana illibata” di Luigi Zampa
(1971), con Alberto Sordi che promette un matrimonio per posta a Claudia
Cardinale, purtroppo delusa quando poi lo incontra, perché la foto inviata era
quella di un uomo più bello di lui.
Le ricerche
citate confermano che la prima impressione è spesso decisiva. Se poi si chiede
alle persone di analizzare la genesi di questa prima impressione, si scopre che
le persone non sono capaci di farlo. Spesso attribuiscono il successo oppure
l’insuccesso delle fasi successive al primo incontro non alla percezione
iniziale, giusta o sbagliata che fosse, ma ad altri fattori, razionalizzando
così a posteriori la loro precipitosa decisione iniziale. Il fenomeno è molto
forte nella scelta per chi votare, soprattutto da quando hanno preso piede i
dibattiti televisivi (Kahneman, 2012). Le persone scelgono un candidato
formandosi velocemente un’impressione superficiale, ma poi giustificano la loro
scelta o il loro rifiuto con criteri apparentemente più ponderati e razionali
(Olivola e Todorov, 2010). Le ricerche, tuttavia, mostrano che ci si comporta
così non perché si provi vergogna o reticenza nell’ammettere il nostro vero
criterio di scelta: semplicemente non ce ne rendiamo conto, e ci
auto-inganniamo. Questa differenza emerge anche nell’altro senso: provate a
chiedere alle persone i criteri con cui sceglierebbero in un negozio un poster
o un abito. Dopo che hanno reso espliciti in modo dettagliato questi criteri,
le persone sono invitate alla scelta. Ebbene, la scelta guidata dai criteri si
rivela meno soddisfacente, sui tempi lunghi, di quella fatta con una prima
occhiata. E’ come se il rendere esplicito un sapere, che per solito è tacito e
non trasparente, finisca per confonderci le idee (cfr. Myers, 2004, Baron,
2014).
Gli studi
sui modi taciti di gestire le relazioni sociali nella quotidianità mostrano che
la rapidità nel formarci un’impressione della persona che abbiamo davanti è
funzionale a una rapida categorizzazione della persona in termini di stile e
personalità abituali. La categorizzazione, a sua volta, serve a ridurre
l’incertezza del mondo sociale perché presumiamo che le persone, una volta
classificate, diventino prevedibili perché si comporteranno nei modi abituali
della categoria in cui le abbiamo messe (cfr. Legrenzi, Umiltà, 2014).
Ci sono due
ambiti professionali che, da questo punto di vista, sono particolarmente
interessanti: gli psicoterapeuti e i consulenti finanziari. Entrambe le
professioni hanno a che fare con problematiche riservate o, per lo meno, con
relazioni interpersonali che richiedono fiducia oltre che expertise da parte
della persona a cui ci rivolgiamo. Il modo con cui psicoterapeuti e consulenti
interagiscono con i loro clienti è indicativo di un’importante dimensione
sociale della conoscenza tacita quotidiana.
Come fa,
secondo Hobson (2013, pp. 11-15), uno psicoterapeuta a formarsi un’idea del suo
cliente? In sintesi, egli raccoglie i seguenti tipi di informazioni:
- v età, classe sociale, religione, situazione finanziaria, familiare, e tutte le altre più importanti variabili sociologiche, oltre a quelle più legate al suo privato, alla sua storia personale;
- v racconti e storie, durante gli incontri con lo psicoterapeuta, e, soprattutto, quello che il cliente reputa importante comunicare, indipendentemente se ciò si rivelerà vero o falso;
- v il tipo di relazione che il cliente intrattiene con lo psicoterapeuta, il tipo di ingaggio, e il contratto implicito che via via si sviluppa.
Tutte queste
informazioni sono utili anche a un consulente finanziario, ma la tecnica di
raccolta delle informazioni può divergere. Uno psicoterapeuta, per solito, può
usare una tecnica più invasiva, che è resa plausibile, e accettabile dal
cliente, alla luce del fatto che il cliente si è rivolto a lui con il desiderio
di risolvere alcuni problemi.
Insomma lo
psicoterapeuta si trova di fronte un dilemma (Hobson, 2013). Al contrario un
consulente finanziario ha di fronte un cliente interessato a una terza entità,
e cioè la gestione dei risparmi, e non ha la minima idea dei problemi dei suoi
risparmi, se non un generico senso d’impreparazione e insicurezza (di qui il
trilemma iniziale!). Dato che il cliente ignora anche il rapporto tra i suoi
risparmi e il suo piano di vita, un buon consulente finanziario ha, per lo meno
all’inizio, un atteggiamento passivo di ascolto, uno stile non invasivo, un
appiattirsi sui desideri del cliente. Posto di fronte al trilemma da cui siamo
partiti, favorisce il cliente rispetto al portafoglio. Malgrado questa
differenza, i consulenti dell’animo, e quelli del benessere economico, hanno in
comune una cosa che li differenzia dalla psicologia sociale ingenua della vita
quotidiana. In entrambe le professioni, non è bene fidarsi della prima
impressione:
I primi cinque o dieci minuti di consulenza possono contenere molto di
quello che poi ci guiderà nella comprensione del paziente, ma questi pochi
minuti iniziali non ci permettono di capirlo. Possiamo registrare mentalmente
quello che succede, ma ignoriamo il loro significato più generale, e non
sappiamo se si tratta di informazioni rilevanti. Tutto quello che possiamo
presumere, all’inizio, è che quello che succede in quei primi minuti è l’avvio
per una lunga strada, ricca di problemi, su cui dobbiamo lavorare con il
paziente. La speranza del terapeuta è di capire, ma solo alla fine del
percorso, il significato di questa fase iniziale (Hobson, 2013, p. 73).
Questa
pazienza iniziale, e questa capacità di sospendere il giudizio, costituisce la
principale differenza tra il modo di agire di questi due tipi di esperti e i
nostri modi di fare quotidiani, innescati da intenzioni inespresse e conoscenze
tacite. Queste ultime sono caratterizzate da assenza di dilemmi, e quindi
rapidità, sia nel formarsi della prima impressione, sia nella tendenza a
catalogare le persone in modo da renderle prevedibili.
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