Ho avuto sovente modo, in questi anni, di mettere in
guardia la mia clientela dalla pericolosa situazione verso la quale si stava
indirizzando il nostro paese.
Ben prima della crisi dei mutui sub-prime e del
successivo tracollo del 2008 indicavo nella progressiva deindustrializzazione
del paese un cruciale fattore di futura contrazione del benessere che si era andato
consolidando nella seconda parte dello scorso secolo.
La riduzione della capacità produttiva, minata da
caduta di produttività, basso tasso di ricerca e sviluppo, basso livello
dell’istruzione, scarsa penetrazione dell’informatica a tutti i livelli, scarsa
conoscenza delle lingue straniere, invecchiamento della popolazione (in
particolar modo della classe imprenditoriale), frammentazione e
sottocapitalizzazione delle imprese sarebbero potuti diventare i driver di un
progressivo sgretolamento di una crescita sempre più fragile, con gravi ripercussioni
sull’intera società italiana che poco avrebbe potuto contare sull’intervento
pubblico, causa un debito di enormi dimensioni.
Consapevole pertanto di ciò, ho costantemente
sottolineato - proprio in virtù del mio lavoro di consulente in tema di
investimenti e pianificazione finanziaria - che ne sarebbe derivata una
generalizzata incapacità di produzione di nuovo risparmio e un aumento della
tendenza all’erosione dello stock di ricchezza tanto faticosamente accumulato
nei decenni precedenti.
Se questa è stata dunque un mia perdurante convinzione
(corroborata peraltro dall’osservazione di dati e tendenze economiche
disponibili a chiunque) non potevo che apprezzare e condividere l’intervista di
Advise
Only al Prof. Giovanni Vecchi, pubblicata in questi giorni.
Innanzitutto chi è Giovanni Vecchi? Il Prof. Vecchi è
docente di storia economica, statistica e analisi del benessere all’Università
di Roma Tor Vergata. Poco più che quarantenne ha al suo attivo un notevole
curriculum nel quale spiccano numerose ricerche, articoli, pubblicazioni e un libro che invito a leggere, intitolato “In ricchezza e in povertà. Il benessere degli
italiani dall’Unità a oggi ” edito nel 2011 dalla casa editrice “Il Mulino”, di
Bologna.
Mi ripropongo pertanto di proporre, qui di seguito, l’intervista
così come è stata pubblicata:
“Intervista a Giovanni Vecchi”
D. Nel suo
discorso al Teatro Parenti, ci ha mostrato come in Italia il PIL pro-capite sia
diminuito per la prima volta dal secondo dopoguerra nel 2001-2013 e che, in
generale. Stiamo perdendo terreno rispetto al resto del mondo. L’Italia secondo
Lei sta sprofondando o ha toccato il fondo e si sta preparando alla risalita?
R. La dinamica del
PIL pro-capite è un problema strutturale dell’Italia. E’ indubbio che la Grande
Recessione abbia impresso un’accelerazione alla contrazione dei redditi e delle
spese degli italiani, ma è da due decenni che l’Italia non cresce. Durante gli
“anni d’oro” (1950-1973) si crebbe a velocità sostenuta, con un tasso medio del
5,5%. La generazione successiva ha invece fatto esperienza del rallentamento:
fra il 1974 e il 1992 il tasso di crescita si è dimezzato (2,4%). Poi è
iniziato un rallentamento pronunciato e da allora non ci siamo più ripresi.
Questa frenata è, in parte, fisiologica: è più
semplice crescere partendo dalle retrovie.
Ma il quadro è più fosco se confrontiamo la dinamica
del PIL italiano con quella degli altri paesi: abbiamo perso terreno sia verso
gli USA, sia verso l’Europa, sia verso i Paesi Ocse in generale. Pensate che
dal 2000 al 2010 abbiamo avuto il peggior dato di crescita medio nel mondo,
escludendo l’Africa sub-sahariana.
Insomma. L declino dell’Italia è ampliamente
documentato. Ma non credo che abbiamo toccato il fondo. Un paese può uscire dal
declino solo quando riesce a capire gli scenari che si prefigurano.
Ma per capire e gestire le tensioni che il cambiamento
provoca bisogna essere istruiti. E’ proprio questo l’anello più debole del
nostro paese, che ne impedisce la ripresa. Per questo penso che scenderemo
ancora.
D. La crisi non ha
eroso solo il PIL, ma anche il risparmio degli italiani. Come si è evoluto
dall’unificazione ad oggi?
R. Per rispondere,
abbiamo dovuto fare una grande ricerca per ricostruire la serie storica del
tasso di risparmio delle famiglie italiane, che vediamo nel grafico.
Osservandolo, emerge che anche il risparmio è
stata una conquista. A fine Ottocento, non si riusciva a risparmiare più del
4-5% del reddito. Quindi siamo arrivati al 10% durante la Prima Guerra Mondiale
e poi siamo diventati “campioni del risparmio” tra la fine degli anni Settanta
e l’inizio degli anni Ottanta, quando gli italiani riuscivano a risparmiare
oltre il 25% delle proprie entrate. Adesso siamo tornati al di sotto del 10%.
Il risparmio è colato a picco per varie ragioni.
Innanzitutto, perché il redito non cresce. In secondo luogo, le famiglie stanno
cercando di ammortizzare le ripercussioni della crisi e difendere il loro
tenore di vita. Nel 2010, solo quattro famiglie su dieci sono riuscite a
risparmiare e una su cinque si è indebitata.
Queste cifre si impennano per i giovani: il 37%
non riesce a risparmiare, anche per colpa di una disoccupazione giovanile sopra
al 40%. Non bisogna dimenticare che dietro l’incapacità di risparmiare c’è
l’incapacità di programmare una vita e realizzare i propri obiettivi.
D. In generale,
qual’è stato l’impatto della recente crisi sul benessere degli italiani?
R. L’impatto è
stato pesante. Certamente un fattore critico in questo momento è la mancanza di
lavoro e di prospettive.
L’Istat ha calcolato che il 28% dei residenti
in Italia è a rischio povertà o esclusione sociale e la percentuale di poveri è
raddoppiata nel giro degli ultimi anni. Ormai i poveri costituiscono un vero e
proprio esercito, che va al di là di ogni programma di welfare che si possa
disegnare, Io non ho memoria di fenomeni di deterioramento così repentino. Ma
neanche di un serio dibattito tra politici, media e policy maker: dopo qualche
commento sui dati dell’Istat, tutto è tornato come prima. Evidentemente, la
povertà non interessa molto.
Bisognerebbe fare prevenzione: anziché contare
i poveri, converrebbe stimare la vulnerabilità alla povertà, ovvero la
probabilità di diventare poveri “domani”.
D. La crisi ha
dunque colpito tutti gli italiani allo stesso modo?
R. No, è stata
“selettiva”. I redditi e la ricchezza sono diminuiti in maniera importante, ma soprattutto quelli
delle famiglie meno benestanti: basti pensare che il reddito del 10% più povero
della popolazione dal 2008 al 2012 è crollato del 25%. E la disuguaglianza si è
impennata.
D. L’aumento delle
disuguaglianze è stato al centro del dibattito mondiale nel 2014 dopo la
pubblicazione del libro di Piketty “Il capitale nel XXI secolo”. Anche
lei ha trattato lo stesso tema nel 2011 nel suo libro “In ricchezza e in povertà”.
Cosa ne pensa del saggio del suo collega francese?
R. Il lavoro di
Piketty ha avuto molti meriti, tra cui quello di portare all’attenzione della
collettività il tema della disuguaglianza, come anche il mio libro, su scala
minore. Il dato aggiuntivo di Piketty riguarda l’ascesa del rapporto tra
capitale e PIL, che sta tornando ai livelli dell’Ottocento in molti paesi.
Questo genera il timore di tornare a un passato che si riteneva ormai superato.
Personalmente, non credo che questa paura sia fondata: bisogna far bene i
conti, e non sempre si confermano i risultati di Piketty.
Infine, credo che ci sia una grande omissione
nel suo saggio: non ha incluso nell’analisi il capitale umano, che ha
un’importanza fondamentale in un’analisi storica di lungo periodo. Il capitale
umano ha contribuito in maniera importante all’avvicendamento USA-UK per la
leadership mondiale e al tempo stesso, ha contribuito a evitare un aumento
esponenziale delle disuguaglianze in America. Se includessimo il capitale umano
nell’analisi, ci sarebbe spazio per un po’ più di ottimismo.
Personalmente, non vedo un epilogo alla Karl
Marx, con la distruzione del tessuto sociale per l’aumento delle
disuguaglianze. Ma dobbiamo ricordarci che ci sono delle tensioni nelle società
e che c’è un livello di disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza
oltre il quale è meglio non avventurarsi. Vorrei che questo rimanesse un
richiamo salutare e non un elemento di ansia in un Paese, come l’Italia, che
sta facendo fatica a ripartire.
D. A questo
proposito, cosa ne pensa dell’aumento delle disuguaglianze nel Belpaese?
R. In Italia è
aumentata la disuguaglianza, ma non in maniera così pronunciata come nel Regno
Unito e negli USA. Il fatto che da noi sia aumentata in maniera minore può
voler dire che da noi il sistema di welfare è riuscito comunque ad
ammortizzare.
Ritengo però grave che si siano combinati nello
stesso periodo l’incapacità di crescere e l’aumento delle disuguaglianze.
Questo dà luogo a un aumento della povertà, destinata ad aumentare ancora in
futuro. Il 25-30% degli italiani non poveri oggi sono ad alto rischio di
povertà nei prossimi dodici mesi. Questo dimostra che l’Italia è fragile e sta
riuscendo a evitare il baratro povertà attingendo ai suoi risparmi. Questa
situazione non può protrarsi all’infinito e sta intaccando il ceto medio.
Una soluzione semplice al problema non esiste:
bisogna riuscire ad accomodare il cambiamento richiesto a una società perché
possa competere e tornare a crescere, abbracciando i valori della competizione
e della tecnologia, con i costi che ad essi si associano. E la chiave di volta
per questo cambiamento passa dalla scuola.
D. Ci vorrebbero
maggiori investimenti in istruzione?
R. Quasi tutti
sanno aumentare la qualità di istruzione: basta aumentare le iscrizioni e
bocciare di meno. Il vero problema dell’Italia è la qualità del capitale umano,
ovvero una popolazione che, quando è confrontata con le altre, non finisca agli
ultimi posti in matematica e in problem-solving.
E invece stiamo sprofondando: abbiamo una
popolazione giovane con pessimi risultati nei test Pisa-Ocse, mentre la popolazione
adulta, come ha denunciato il linguista Tullio De mauro, è afflitta da
analfabetismo funzionale. Significa che legge, ma poi non sa riassumere cosa ha
letto, perché non lo capisce. Considerando la fragilità economica che sta
attaccando il ceto medio con l’ignoranza, io sono scettico anche sulla tenuta
democratica. Lo vediamo dalle discussioni superficiali sull’uscita dall’euro.
Quella della scuola è la riforma più importante da attuare, altrimenti l’Italia
non troverà la strada per uscire dal declino.
APPRONTARE UNA STRATEGIA DI DIFESA
Dunque, quelle che erano delle semplici previsioni si
sono purtroppo puntualmente avverate ma, in questa poco confortante realtà,
averle sottoposte all’attenzione dei miei clienti ha significato quantomeno
ridurne l’impatto sui loro patrimoni, aver contribuito ad una migliore
percezione dei rischi derivanti da una non attenta e non responsabile gestione
dei loro portafogli finanziari; significa anche aver indotto dei comportamenti
altrettanto responsabili nei loro figli ma il tema di fondo non cambia: dopo il
male ci sarà il peggio.
Nel frattempo si sono gravemente ampliate le sacche
della disoccupazione, si sono ulteriormente ridotti i redditi medi delle famiglie, si stanno
riducendo a poco a poco le sicurezze dello stato sociale così faticosamente
costruite nei decenni passati, in primis quella di una terza età da vivere con
dignità e serenità e il compito di provvedere a ciò è lasciato in buona misura
alla libera e volontaria iniziativa di ciascuno.
Tutto ciò in un clima di crescita globale poco
significativa, se non gracile, ma che comunque il nostro paese non è ancor oggi
in grado di intercettare.
In questa situazione non tarderà a pesare anche una
sopravveniente maggiore difficoltà nella gestione delle risorse familiari a
tutto tondo. Gestire oculatamente redditi sempre più scarsi, patrimoni che
andranno sistematicamente riducendosi e che dovranno essere utilizzati per
esigenze sempre più importanti e inderogabili non rappresenterà un certo un
compito facile.
Gli aiuti straordinari messi in
campo dalle banche centrali nei prossimi anni sono destinati ad esaurirsi e ciò
porterà a maggiori volatilità (leggasi perdite) rispetto all’ultimo
quinquennio, le perdite andranno ad erodere il capitale che via via sarà
utilizzato per pagare l’istruzione ai figli, per la manutenzione delle proprie
abitazioni, per le spese correnti, per gli accantonamenti previdenziali, ecc.,
in presenza tra l’altro di una pressione fiscale sempre maggiore su
qualsivoglia impiego finanziario . Sui mercati pioveranno sempre più numerose le
offerte di prodotti oltremodo complessi e di difficile comprensione, il cui
assemblaggio nel portafoglio complessivo costituirà un vero e proprio enigma
per clienti sempre più spaesati e disorientati.
La gestione dei propri patrimoni
sarà dunque sempre più complicata e destinata ad essere supportata da veri e
propri consulenti in materia e non da semplici intermediari, come avviene oggi,
contraddistinti da un’operatività pregna di conflitti di interesse e relegati
dalla stessa normativa nel ruolo di meri proponenti l’acquisto di prodotti
finanziari.
Tradurre le presenti e future
complicazioni di cui sopra in un rapporto di assistenza professionale è ormai
un’esigenza esplicita anche nel nostro paese, lo confermano le più recenti
indagini. A tal proposito posso citare un breve aneddoto che trassi dalla mia
seconda esperienza formativa in USA, datata 2012, quando ebbi modo di chiedere
come avvenivano i primi contatti con la nuova clientela potenziale e la
risposta fu semplicemente disarmante: “Da qualche anno sono i clienti a cercare i consulenti;
qui da noi i risparmiatori hanno finalmente capito che non è più tempo di
scherzare con il proprio futuro”. Che grande risposta !!!
Ma cosa c’è realmente in gioco? Cosa
chiedere a un professionista in cambio di un legittimo costo da sostenere?
In primo luogo la finalizzazione
delle risorse finanziarie agli obiettivi dichiarati dovrebbe costituire
l’intelaiatura stessa del rapporto consulente-cliente. La gestione di tali
risorse dovrebbe essere supportata da elementi di analisi di verificabile validità,
dovrebbe essere basata su un rigido controllo del rischio non solo nella fase
iniziale ma per tutta la durata dell’investimento, le proposte dovrebbero
orientarsi su prodotti selezionati con cura per la loro qualità e i loro costi,
la ricerca del contenimento degli oneri fiscali dovrebbe essere costantemente
applicata, il tutto in assenza totale di conflitti di interessi.
Tutto ciò per ottenere con la
massima precisione possibile il conseguimento dei risultati programmati, che
vanno dall’acquisto di un abitazione al pagamento delle rette universitarie per
i propri figli, dalla costituzione di una previdenza complementare alla mirata
successione ereditaria del proprio patrimonio, e chi più ne ha più ne metta.
Un rapporto franco e sincero e una
disponibilità che vada al di là del semplice rapporto di lavoro sarebbero
infine gli ultimi ingredienti per una ricetta ideale.
Dall’altra parte, quella
dell’investitore, due sole cose da tenere ben presenti. La prima è che instaurare
un rapporto professionale di qualità significa accordare la propria fiducia all’altra
persona, senza freni o remore di sorta.
La seconda è ricordarsi sempre
quanto costa quel rapporto, ma avendo ben presente quanto verrebbe a costare di
più l’intervento di un dilettante.
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