I
consulenti esperti non sanno bene come sono diventati esperti o, meglio, non
sanno spiegare in dettaglio come lo sono diventati. La loro esperienza si è
formata con un processo tacito, per accumulazione progressiva. Tant’è vero che
se dovessero trasmettere a un collega giovane i fondamentali della loro
expertise, il modo più semplice sarebbe portare con se l’apprendista, e
mostrargli un poco alla volta di che pasta è fatto il loro lavoro. In questa
prospettiva un consulente esperto potrebbe supporre che la tendenza a farsi una
prima impressione di una persona appena incontrata sia un’abilità acquisita nel
tempo, confrontando l’esito degli incontri iniziali con quello che succede
dopo, e affinando così le nostre capacità. Di qui la rapidità del giudizio.
Un recente
studio di Cogsdill et al. (2014) mostra che le cose non stanno così. Adottando una metodologia di presentazione di foto e
di richiesta di giudizi, come nella ricerca di Willis e Todorov già descritta
nella lezione precedente, si scopre che bambini, dai tre ai dieci anni (età
media 6 anni), danno dei giudizi rapidi e precisi sul carattere di una persona
alla sola vista del suo viso. Non solo, questi giudizi sono in sostanza simili
a quelli degli adulti. Viene da domandarsi a che età si sviluppi tale abilità,
che si rivela così precoce, o se invece sia addirittura innata. Sembra che
l’inferenza immediata dal viso al carattere sia già presente in infanti che
sono capaci, in modo sistematico, di distinguere facce aggressive da visi buoni
(Mascaro e Csibra, 2012).
L’ipotesi prevalente è che questa
capacità sia innata e sia stata selezionata per dotarci di giudizi rapidissimi,
atti a discernere il viso di nostra madre e, più in generale, visi di amici e,
soprattutto, visi di nemici. In effetti, quando dobbiamo valutare se
l’espressione di una persona rivela che lei potrebbe farci del male, dato che
esibisce una faccia aggressiva, il tempo di giudizio è ancora più rapido del
decimo di secondo necessario per un giudizio più articolato. Bar (et al., 2006)
ha provato a presentare facce aggressive e non aggressive, scoprendo che
bastano 36 millisecondi per poterle discriminare in modo preciso. Tutto ciò
porta acqua al mulino degli psicologi evoluzionisti. Essi pensano che questa
capacità faccia parte del nostro patrimonio innato, essendo stata selezionata
per adattarci a mondi incerti e pericolosi, quando era letteralmente vitale
saper valutare rapidamente le intenzioni ostili di uno sconosciuto (Workman,
Reader, 2014, p. 139).
Questa ipotesi è corroborata dalla
precoce capacità di interpretazione degli sguardi. Gli infanti di tre mesi
sorridono meno quando un adulto non li guarda, e si pensa che si tratti “di un
adattamento specifico della specie umana, che è essenziale per lo sviluppo
della comprensione degli stati mentali altrui” (Farroni, Csibra, Simion,
Johnson, 2002). La precocità della valutazione delle emozioni altrui è stata
anche collegata alle funzioni dei neuroni specchio scoperti dal gruppo di Parma
di Giacomo Rizzolatti, ma la questione è troppo complessa per questa sede (per
un approfondimento, cfr. Roganti e Ricci Bitti, 2012).
Le risposte alla questione iniziale
pongono altri interrogativi: si può imparare a diffidare delle prime
impressioni, quelle che scattano quasi automaticamente? Qual è il vero
carattere della persona che abbiamo davanti? Da molto tempo ci si è posti
queste domande.
Nel Sei e Settecento, a Venezia, che
allora era il più grande centro editoriale del mondo, i libri più stampati e
venduti erano i trattati di fisiognomia (Magli, 1995, 1999). Le persone, allora
come oggi, volevano capire il carattere di una persona sulla base delle
fattezze, soprattutto del suo viso.
Si trattava di possibili indizi
molto utili in un mondo che non era fornito di tutte le informazioni che oggi
si possono trovare in rete, per esempio sulla vita delle persone che non
conosciamo, e che vogliamo o dobbiamo incontrare. Le ricerche mostrano che
questi dati, oggi, sono altrettanto influenti, per farsi un’impressione di uno
sconosciuto, di quelli “visivi”, collegati alla prima impressione.
Il peso della prima impressione
dipende da quello che intendete fare con una specifica persona. In molti casi,
le fattezze del suo viso contano meno della sua esperienza professionale,
quando questa è documentata. Questo tipo di documentazione non era facilmente
reperibile nel Sei/Settecento. Di qui la speranza che la fisiognomia
funzionasse.
La questione venne studiata a lungo,
ed emerse subito una difficoltà. Il viso delle persone cambia, in funzione
delle circostanze e delle emozioni provocate da uno specifico scenario. Se voi
desiderate stabilire il carattere a lungo termine di uno sconosciuto, dovete
sottrarre l’impressione transeunte, quella di quel preciso momento, per cercare
di identificare la personalità permanente. Magli (1999) racconta, nel suo
classico lavoro sulla fisiognomia, come, agli inizi del Seicento, Della Porta
affermi che è possibile congetturare il vero carattere di qualcuno soltanto
quando il volto "è raffreddato dai movimenti e passioni dell'animo" (Della
fisionomia dell'huomo, 1610, 1, 30, 105).
Le passioni furono così escluse
dall'indagine fisiognomica: “fissata la forma del viso in un neutro passionale,
fuori dalla dimensione del tempo e del divenire, la fisiognomia procede con la
ripartizione della sua superficie in aree”. Si cercava di individuare il
carattere sottostante rivelato da ogni tratto del viso in assenza di
“passioni”, facendo corrispondere ogni dettaglio a una dimensione specifica
della personalità di un individuo, osservato in condizioni di tranquillità.
Secondo Della Porta, i segni del viso più rivelatori sono quelli intorno agli
occhi e alla fronte. Egli ritiene che 'tutto l'uomo stia nella faccia', perché
essa è la 'regia della ragione'.
Questo metodo è un po’ artificiale,
e non molto utile nel corso della vita quotidiana, quando s’incontra una
persona per la prima volta. E’ il tentativo di trovare qualcosa di costante,
cui associare una correlazione tra dettagli del viso e tratti di personalità di
una persona. Un’idea affascinante, anche perché semplice, che però non
funzionava bene. E non può funzionare. Per molto tempo, comunque, si è
continuato a crederci e, anche oggi, la psicologia ingenua vi fa spesso
riferimento (“ha un viso da persona …”). Se, per esempio, seguite in rete
l’edizione del concorso di Miss Italia 2014, vedrete che la giuria e la
presentatrice considerano riduttivo limitarsi a valutare le fattezze del corpo.
Per un giudizio complessivo, i commenti fanno talvolta riferimento alla
presunta corrispondenza tra viso e animo, tale per cui la candidata del Veneto
(arrivata seconda) ha un viso acqua e sapone che manifesta la sua schiettezza,
onestà, semplicità, bontà e dolcezza. E non si creda che tale operazione
ingenua, spontanea e diretta, caratterizzi soltanto la pseudo-psicologia di una
trasmissione nazional-popolare.
Un raffinato letterato e saggista,
come Alfonso Belardinelli, commenta uno scritto di Tim Parks (2014),
riferendosi a una foto di James Joyce:
A me Joyce è antipatico (“Dublinesi”
a parte) proprio perché si vede bene sia dall’Ulisse che da quel che ho sentito
dire della Veglia di Finnegan, che apparteneva alla categoria degli scrittori
dispotici e vampireschi che vogliono i lettori al loro servizio e fanno il
possibile per colonizzarli, metterli a lavorare e magari punirli. Veramente
questo si capisce perfino dalla faccia di Joyce, ma non voglio spingermi oltre.
Dico soltanto: guardatela bene quella faccia, l’articolo di Parks è corredato
da una magnifica foto molto parlante.
L’argomento fisiognomico è fallace.
Belardinelli lo sa, e vuol fare un’iperbole ricorrendo all’immagine del viso di
Joyce come dimostrazione immediata della sua antipatia.
La prova “visibile” è una tipica
strategia della quotidianità per “esternalizzare” e condensare un sapere
tacito. Tale strategia è efficace perché è innescata proprio dalla visibilità
(Legrenzi e Umiltà, 2014, pp. 104-108). La visibilità: che cosa è più visibile
di un viso come fonte per attribuire un carattere a una persona, in pochi
secondi, come si è visto sopra?
Un ingrediente fondamentale del
sapere tacito quotidiano consiste nell’attribuire le azioni di una persona al
suo carattere permanente, dando senso e continuità allo stile di vita. La
nostra conoscenza sociale tacita si avvale di questa tendenza illusoria
consistente nell’individuare cause semplici e nel collocarle dentro la mente
(per una rassegna, cfr. Bauer e Baumeister, 2013).
Nel caso delle categorizzazioni
sociali, il viso di un’altra persona ci comunica in modo immediato la sua
quintessenza.
In sintesi le cose funzionano così:
·
si osserva un viso
o un comportamento;
· lo si descrive
come conseguenze di una caratteristica permanente o di un tratto mentale di
quella persona (l’essenza di quella persona);
·
si spiegano i
comportamenti successivi come effetti di quella caratteristica o di quel
tratto.
Questo modo di fare ha il grande
vantaggio di spiegare le cose tramite cause semplici, basate su caratteristiche
durature, utilizzabili in occasioni diverse. Noi vediamo che una data persona
si comporta da egoista o da invidiosa, mentre non vediamo che cosa succede
dentro la sua testa, tanto meno vediamo il cervello all’opera. E allora il
“visibile” ha bisogno di una gruccia, un supporto su cui ancorarsi per spiegare
la continuità dei comportamenti di una persona. Così un bambino potrà dire di
un altro: è solitario (non gioca con gli altri), è egoista (non scambia i
giocattoli), è generoso (impresta le sue cose), e così via.
Tutte queste proprietà vanno a
definire la sua essenza, quella che gli adulti chiameranno carattere. Il “viso”
è un caso particolare di questa strategia inconsapevole fondata sul visibile
(Legrenzi e Umiltà, 2014).
In conclusione, un bravo consulente
sarà cauto nel classificare le persone. Almeno in fase iniziale, di fronte al
triangolo cliente-portafoglio-consulente, partirà dall’esame della composizione
del portafoglio e, in seguito, lo modulerà in funzione delle caratteristiche e
degli obiettivi del cliente.
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