Le elezioni europee di maggio
sono alle nostre spalle e i risultati usciti dalle urne ci hanno mostrato una
forte insofferenza dei cittadini comunitari nei confronti delle politiche
economiche che ci hanno sino ad ora
accompagnati. Se da una parte sembra necessaria una stagione di riformulazione
degli accordi e una minore stretta sui paesi dell’area mediterranea, dall’altra
siamo perfettamente consapevoli che negli ultimi anni le autorità hanno preso
tempo in attesa di una ripresa economica che sembra invece allontanarsi tanto
da indurre Mario Draghi alla manovra espansiva dei giorni scorsi.
La situazione va dunque
affrontata, pena un ulteriore rigurgito populista in ambito comunitario, ma la
tendenza deflazionistica in atto non favorisce lo sgonfiamento dei debiti
pubblici decollati a partire dal 2008 che ovviamente limitano le possibili
manovre di stimolo.
Pecora nera - per molti versi il
nostro paese - che invece, se andiamo a considerare l’attuale giudizio dei
mercati finanziari, sembrerebbe destinato a grandi cose. In questi ultimi giorni,
anche a seguito delle decisioni della BCE (taglio del tasso dallo 0,25 allo
0,15%) il tasso del Btp decennale si è portato al 2,75%, molto al di sotto del
livello dell’autunno 2011 quando il rendimento di questo titolo raggiungeva il
limite dei 7,5 punti percentuali e rammentiamoci che meno di un anno fa questo
titolo riconosceva un 4,5% annuo agli
investitori. Lo spread sul bund tedesco, pur con le forti escursioni del
periodo pre-elettorale (da 150 basis point a 200 e ritorno in questi giorni), staziona
ai livelli del 2009, periodo nel quale sui mercati imperversavano le massicce
vendite di asset finanziari e la crisi delle principali banche europee faceva
lievitare l’indebitamento pubblico di paesi storicamente virtuosi come, per
l’appunto, la Germania.
Il FTSE Mib, da luglio 2012 ad
oggi è passato da 13.600 punti a 22.300, un incremento equivalente a più del 60%.
Va sottolineato che la borsa italiana era rimasta sostanzialmente al palo nei
tre anni precedenti (crescita per alcuni mesi nel corso del 2009 e un lento ma
inesorabile ritorno sui minimi nei tre anni successivi) mentre le principali
piazze del continente iniziavano a salire consolidando la loro crescita; nel
rapporto prezzo/utile medio il nostro mercato azionario sembra concedere pochi
spazi ad ulteriori crescite, visto che è fra i più elevati del continente.
Ma la situazione italiana, lo
sappiamo bene, non è altrettanto florida. Il livello raggiunto dal debito
pubblico è quantomeno preoccupante; stiamo parlando di oltre 2.100 miliardi di
Euro che equivale a un debito pro-capite di 35.000 Euro, neonati compresi. Sul
Pil, ossia la ricchezza nazionale annua prodotta dall’Italia, siamo al 132% !!!
Ciò significa che lo stock del debito è più elevato del Pil di ben 550 miliardi
di Euro. E questo rappresenta inequivocabilmente un bel problema.
Ma è solo la fotografia della
situazione. Vediamone anche la dinamica. Nel 2008 il Pil era intorno ai 1.475 miliardi
e il debito lo sopravanzava di circa 200 Miliardi; il rapporto debito/Pil stava
al 106%. A fine 2013 si possono inequivocabilmente toccare gli effetti della
crisi; il Pil si attestava a 1.560 Miliardi, un incremento di soli 85 miliardi
(il 5,7% in più) mentre ben altre dinamiche hanno caratterizzato la crescita
del debito. Nello stesso arco temporale si passa da 1.650 a 2.070 Miliardi, ben
420 Miliardi in più, il che equivale a un incremento del 25% !!!
In cinque anni lo Stato italiano
incrementa l’indebitamento pro-capite di 7.000 Euro. Molti si chiedono dove
questi soldi siano finiti: stipendi pubblici, opere di pubblica utilità, cassa
integrazione, pensioni, servizi sociali, istruzione, costi della politica,
magari (e in molti lo sospettano) anche sprechi e malversazioni.
Numeri preoccupanti, soprattutto
se andiamo a considerare quanti investimenti si dovrebbero fare per
riequilibrare la situazione italiana. Scopriamo l’acqua calda dicendo che
dovremmo investire massicciamente in istruzione, infrastrutture, nuove
tecnologie, ecc. , che ci consentirebbero di riprendere la via della crescita,
appannata da decenni. Vale la pena di ricordare un dato che fece scalpore
nell’ottobre 2010 quando il giornale El Pais pubblicò un’analisi della crescita
su un arco decennale; all’Italia era attribuita una crescita (in termini
assoluti, non annuali !!!) del 2,43%, un’inezia. Sui paesi considerati, che
erano 180, l’Italia era relegata al 179^ posto della classifica davanti
unicamente alla poverissima Haiti.
Abbiamo dunque una distanza da
colmare di enormi dimensioni. Possiamo consolarci con alcune nostre eccellenze
e sperare che il paese, per qualche favorevole strana alchimia, si riprenda
anche senza questi investimenti ma ho i miei dubbi. Dovremmo piuttosto stare
attenti che la concorrenza internazionale non metta in difficoltà le aziende
virtuose o che addirittura qualche grosso gruppo internazionale non se le
compri, fatto che si sta verificando sempre più spesso (pochi giorni fa anche
la Garofalo, quella della pasta di Gragnano, ha ceduto la mano a imprenditori
spagnoli).
La domanda a cui sono chiamato a
rispondere in questi giorni che mi viene posta dai miei clienti è quella sulla
convenienza o meno di acquistare e detenere in portafoglio asset obbligazionari
e azionari italiani. Partiamo intanto dal presupposto che il principio più
valido nella costruzione di un asset è quello del perseguimento della
diversificazione e una parte della risposta è già racchiusa nella proporzione
fra la ricchezza domestica in relazione a quella mondiale. La percentuale è
ovviamente molto piccola e dunque, nonostante la maggiore conoscenza del nostro
mercato e dei nostri titoli, ecco che il suggerimento di una diversificazione
molto ampia al di fuori dei nostri confini viene da sé.
Sul mercato azionario, tenendo
conto del principio testé espresso, la detenzione di asset azionari risponde,
oltre che a logiche patrimoniali, anche a logiche umorali (leggasi speculative)
e l’investimento nel mercato azionario domestico può essere ancora tatticamente
premiante a patto però di selezionare bene i titoli e di tenere conto della
sperequata rappresentatività delle società quotate che sbilanciano l’indice a
favore degli asset finanziari piuttosto che di quelli industriali; questi
ultimi sono quelli che dovrebbero trarre i maggiori benefici da una ripresa a
livello globale e tra questi possiamo ritenere più premianti i titoli delle
società export oriented.
Il punto nodale sta sui titoli
obbligazionari e quelli governativi nazionali. La critica situazione dell’economia
nel suo insieme e in particolar modo la deficitaria struttura debitoria
pubblica, a rigor di logica, dovrebbe essere incorporata nei rendimenti; in
altre parole il prezzo degli squilibri non dovrebbe essere prezzato in termini
di maggior remunerazione per il rischio assunto dai detentori di questi titoli?
Nel corrente anno, infine, sono
in scadenza ampi collocamenti di debito che ha un impegno di riallocamento di
ca. 330 Miliardi di Euro, in parte già avvenuto con successo; questo debito
prima della crisi era per più del 50% in mani straniere mentre oggi la maggior
parte è detenuta da investitori domestici. In pochissimi anni, tanto per la
cronaca, il sistema bancario (che tuttora nega credito alle imprese) ha elevato
la proprietà di titoli pubblici da poco meno di 200 Miliardi agli attuali 400.
E’ dunque ben chiaro che la
rischiosità di detenzione del debito è sempre più un fatto domestico, che i
destini delle banche italiane e dello stato sono assolutamente intrecciati, che
i maggiori asset di credito sono rappresentati da titoli di stato e
obbligazioni bancarie (le obbligazioni corporate sono di gran lunga inferiori) e
che tra le opzioni esaminate da Bruxelles per stimolare la crescita ci potrebbe
stare anche una ristrutturazione generalizzata a livello comunitario; in ultima
istanza l’aggravarsi della situazione italiana - in caso di incapacità di
intercettazione della crescita - e del possibile fallimento delle riforme (ancora
tutte sulla carta) potrebbe indurre il governo italiano all’applicazione del
decreto 96717/2012 sulla CACs con le nefande conseguenze del caso.
Ipotesi forse lontane e magari
solo didattiche ma sinceramente uno spread di 150 basis point e un rendimento
del 2,75% non mi inducono proprio all’acquisto di buoni del tesoro in dosi
massicce.
Io resto fiducioso sugli asset italiani sia obbligazionari si azionari. Se ci sarà in europa un quantitative easing come annunciato da Draghi potrebbe rivelarsi una buona opportunità per chi acquista seppure a livelli di prezzo già molto alti i ns btp. E di conseguenza, se si alzano i rendimenti a scadenza dei governativi, anche gli asset azionari finanziari godranno di ulteriori crescite. Quindi, sempre in un ottica di diversificazione e alla ricerca di asset il più possibile decorrelati tra loro, io punterei ancora su casa nostra.
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