Prima di iniziare questa lezione, la centesima (grazie a tutti!), vorrei
rifarmi alla lezione 98. In quella
lezione avevo parlato di Keynes e degli errori sui cambi.
Avevo ricordato
come si possano fare previsioni, ma solo a breve termine, sulla base delle
aspettative degli operatori (in effetti oggi il rapporto euro/dollaro è sotto
1,32). E tuttavia, come nel caso di Keynes, non è facile fare previsioni con
più largo respiro, quelle previsioni, appunto, in cui Keynes si era sbagliato,
fidandosi delle ipotesi “macro”. Sono invece le previsioni a breve quelle che
le persone ricordano, perché ne parlano la stampa e gli operatori (come nel
caso della discesa dell’euro sul dollaro). E tuttavia, quando tali previsioni
si avverano, ecco che sorge il pericolo consistente nell’indurre i non-clienti
a restare non-clienti, invece di servirsi di un consulente, considerato
inutile.
Tutti i dati mostrano invece l’importanza di avere un consulente,
anche perché dev’essere proprio il consulente a fare la giusta miscela tra i
prodotti (non ci sono singoli gestori sistematicamente più bravi a fare i
prodotti, almeno sui tempi lunghi, vedi sotto). A questo riguardo il collega
Carlo Benetti, in una bellissima lezione uscita lunedì 1 settembre, ricorda
come “negli ultimi scampoli della pallida estate agostana, l’indice S&P 500
abbia superato il livello record di 2.000, sedici anni dopo quel 2 febbraio
1998 quando toccò quota 1.000, e pochi giorni prima il Dow Jones abbia
riguadagnato quota 17.000”. Ora, continua Benetti, “gli utili societari
forniscono il carburante alla spinta positiva del mercato” ma, ancora una
volta, è un fattore esterno a muovere i listini, e cioè “l’indiscussa fiducia
nelle capacità taumaturgiche dei signori della moneta”.
Fino a quando
durerà questa fiducia? Domanda rilevante questa, proprio perché il raddoppio
dello S&P500 potrebbe indurci a supporre regolarità sui tempi lunghi,
quelle per cui potremmo pensare di poter fare a meno dei consulenti. E invece
le cose non stanno così. Sedici anni possono sembrare un periodo assai lungo
per il raddoppio, visto che per passare da 500 a 1000 erano bastati solo tre
anni (dal 1996 al 2 febbraio 1998). In realtà non c’è alcuna regolarità ciclica
su cui contare, perché lo S&P500 ci aveva messo 17,4 anni per passare da
100 (1968) a 200 (1985). E c’erano voluti più di 29 anni per passare da 25
(1929) a 50 (1958). Morale: ancora una volta la necessità di una diversificazione
fatta da un esperto, e cioè un consulente! L’esperto non è la persona che
costruisce i prodotti finanziari o gestisce un suo fondo, perché spesso questa
persona è più facilmente preda delle sue teorie e, quindi, delle bolle. Quanto
più è bravo, quanto più si sente esperto, e tanto più si fida delle sue
valutazioni! Se lo stesso Keynes si era sbagliato, non dobbiamo stupirci di
quel che è successo nella migliore università al mondo, Harvard. Harvard
gestisce al suo interno la cospicua dotazione di 37 miliardi di dollari (la più
alta al mondo) grazie a 330 impiegati e ai “suoi” esperti. Eppure il suo
patrimonio è sceso dai 37 miliardi del 2008 ai 27 miliardi del 2009. La più
modesta università di Pennsylvania, che si serve di consulenti esterni, ha
avuto meno perdite e incrementi più alti (14% contro l’11% di Harvard, almeno
nell’ultimo anno).
E tuttavia non
è questo il punto. Il punto cruciale da spiegare ai clienti è che il consulente
è un esperto speciale, e adesso intendo soffermarmi su questo punto.
Uno dei più
importanti problemi, e una possibile fonte di difficoltà nei rapporti con i
clienti, consiste proprio nella specifica natura degli errori insiti nella
gestione del risparmio. Si potrebbe pensare che un cliente debba andare da un
consulente perché, da solo, sbaglierebbe, non sapendo come vanno gestiti i suoi
risparmi. Da un punto di vista molto astratto le cose vanno proprio così, e un
consulente non è diverso da tutti gli altri esperti cui ci si rivolge per
superare i problemi della quotidianità, dalla salute alla manutenzione casa,
dal vestirsi al divertirsi. E tuttavia, se invece di affrontare il problema da
lontano e in astratto, ci si interroga su come funzionano i modi concreti di
stare in relazione con un cliente, allora bisogna riconoscere che gli “errori”
nella gestione dei risparmi non sono dei veri e propri errori, almeno nel senso
quotidiano del termine. Se proprio vogliamo chiamarli errori, dobbiamo comunque
ammettere che sono degli errori che funzionano in modo diverso dagli altri. Non
è una sottigliezza accademica, credo sia un punto cruciale. Qui traggono
origine la trappola e l’auto-inganno per cui il non-cliente non diventa
cliente.
Per dimostrarlo, esaminerò dapprima alcune tipologie di errori tipici della vita quotidiana per poi poterli confrontare, nella prossima lezione, con gli errori che caratterizzano la gestione dei risparmi da parte dei clienti privi di consulente.
Per dimostrarlo, esaminerò dapprima alcune tipologie di errori tipici della vita quotidiana per poi poterli confrontare, nella prossima lezione, con gli errori che caratterizzano la gestione dei risparmi da parte dei clienti privi di consulente.
Partiamo da
alcuni esempi classici, tratti da Rizzo et al. (Rizzo, A., Ferrante, D.,
Bagnara, S., 1995, Handling Human Error, in Hoc, C. Cacciabue, P., Hollnagel,
E., Expertise and Technology, Psychology Press):
Devo
fare fotocopie a doppia pagina. Preparo la macchina in modo da avere un foglio
grande, a doppia pagina. Poi inizio e vedo che la macchina stampa una sola
mezza pagina e lascia bianca l’altra metà. Ripeto le operazioni e la pagina
semi-bianca capita di nuovo. Guardo meglio, e mi accorgo che avevo impostato la
macchina per i fogli grandi, ma non per fare le fotocopie su doppia pagina. Correggo
la programmazione della macchina.
In questo caso
il processo che fa riconoscere l’errore, e poi lo elimina, si snoda per tre
fasi: un’incongruenza tra attese e risultati, un esame della situazione che ci
fa riconoscere l’errore e, infine, la correzione dell’errore stesso.
In altri casi
la sorgente dell’errore non va individuata in un nostro intervento sbagliato
sul mondo, ma in una nostra manchevolezza “interna”, per esempio una
dimenticanza:
Decido
di pulire a fondo il bagagliaio della mia macchina e rimuovo il pannello di
appoggio. Sopra il pannello ci sono le prese degli altoparlanti della radio. Le
stacco, pulisco il bagagliaio e riparto. A un certo punto, accendo la radio e
mi accorgo che gli altoparlanti non funzionano. Mi ricordo di aver portato la
macchina a suo tempo in garage per alcune riparazioni e penso che si siano
dimenticati di ricollegare gli altoparlanti. Vado in garage e, appena arrivato,
mi ricordo di essere stato io a staccarli per pulire il bagagliaio.
Altre volte, infine, non mi dimentico quel che ho fatto, bensì quel che stavo accingendomi a fare:
Altre volte, infine, non mi dimentico quel che ho fatto, bensì quel che stavo accingendomi a fare:
Voglio
prendere le chiavi della macchina aziendale. Per solito le chiavi sono in una
scatola all’ingresso dell’ufficio. Entro in un’altra stanza e mi metto a
parlare con un amico, e poi cerco in un cassetto. Non trovo le chiavi, e mi
metto a vagare tra le stanze. Che cosa volevo fare? Torno alla mia scrivania e
ricordo che ero andato a prendere le chiavi della macchina.
In quest’ultimo
caso entra in gioco un miscuglio di distrazioni e dimenticanze. La tipologia
degli errori in cui gli obiettivi e un determinato stato di cose non collimano
è ricca, variegata, piena di dettagli e differenze (per un’analisi esaustiva
cfr. Rizzo et al., 1995). In tutti i casi, comunque, abbiamo un’incongruenza
tra gli elementi di una storia di cui siamo protagonisti o spettatori, e alcuni
elementi interni (alla mente) o esterni (nel mondo). Il problema è ripartire da
questa incongruenza in modo da costruire una sequenza che funzioni, in grado di
raggiungere i nostri obiettivi.
Un’incongruenza
molto rilevante per quanto concerne la relazione con i clienti e, soprattutto,
il reclutamento dei non clienti, è proprio dovuta alla concezione errata del
ruolo del consulente e della sua relazione con i clienti. Un consulente non è
un esperto come gli altri. Molti pensano di non averne bisogno perché seguono
un’euristica semplificata di questo tipo:
• ci sono molti
fondi d’investimento
• non ho
bisogno di un consulente per scegliere i migliori
• guardo quelli
con le prestazioni migliori del passato e me li compro direttamente io!
Se il
consulente fosse un esperto come gli altri le cose potrebbero forse andare
così!
Me lui non è un
esperto come gli altri, e non è facilmente sostituibile.
Una recente ricerca
di Gary Porter e Jack Trifts (2014) dimostra in modo chiaro che l’euristica
semplificata sopra descritta non funziona.
Questi due
studiosi hanno esaminato 2.846 fondi d’investimento statunitensi, che possiamo
considerare come un campione rappresentativo di quel mondo che per primo ha
adottato le tecniche finanziarie moderne, insomma la crème mondiale del
settore. Questi 2.846 fondi erano affidati all’inizio del 1996 a 1.825 gestori
(alcuni erano responsabili di più di un fondo). Un po’ come nel caso degli
allenatori di calcio, la rotazione è stata alta: neppure un quarto dei gestori
è stato in sella per più di cinque anni, e solo 195 per la decade 1996-2006.
Non sorprendentemente, quelli con prestazioni sotto la media sono stati mandati
via prima. E tuttavia neppure quelli più bravi sono rimasti in cima alla
classifica a lungo.
Consideriamo,
per esempio, i 20% più bravi (o più fortunati) nel corso del 2007. Alla fine
del 2013 quasi un terzo di questi si collocava nel quarto dei più scarsi (o
sfortunati), e la metà di quel 20% non riusciva a far meglio della media. La
conclusione del settimanale Economist (9 agosto 2014, p. 55) si riassume in
queste lapidarie parole:
Pochi gestori
brillanti possono battere la media del mercato, ma non si possono identificare
prima, sulla base delle prestazioni precedenti.
Insomma, mentre
un tennista o un motociclista, che è in vetta alla graduatoria mondiale, tende
a far bene in tutte le gare, perché è effettivamente più abile degli altri, le
cose non funzionano così nel caso dei gestori. Se anche ci fossero dei gestori
più bravi, e non più fortunati, questi non rimangono in cima alla classifica
per lungo tempo. Il fatto più sorprendente è che anche in un mercato antico, e
quindi smagato, come quello statunitense, la maggioranza delle persone continua
a sperare di poter affidarsi a un gestore che faccia meglio della media. Solo
il 10% rinuncia, e sceglie le medie dei vari mercati (investe cioè in repliche
degli indici, molto economiche, chiamate ETF).
Questa ricerca,
che aggiorna e conferma in dettaglio quanto già si sapeva (cfr. Legrenzi, 2006,
2011), ci ricorda l’importanza del consulente rispetto al gestore. Se nemmeno i
gestori sanno prevedere in modo sistematico quali siano i migliori
investimenti, diventa cruciale il ruolo del consulente. Solo lui può indurci a
frazionare i nostri risparmi in prodotti finanziari il cui andamento nel tempo
non è correlato.
Noi però
dobbiamo preventivamente accettare che il consulente finanziario sia un
“esperto” speciale, che non conosce ogni volta le risposte alla nostra domanda:
qual è ora il miglior investimento? Se tale accettazione non è maturata nella
testa e nel cuore di un risparmiatore, allora costui sarà inevitabilmente
deluso dal mondo dei consulenti, e sarà forte la tentazione di fare di testa
propria, restando, o peggio diventando, non-cliente. Quando poi le sue scelte
personali non producono gli effetti sperati, egli spesso prende paura e si
rifugia in ciò che gli è più noto e familiare. Che cosa ha voluto dire rifugiarsi
nel noto in Italia? Comprare altri immobili, oltre la prima casa, che non ha
mai deluso perché è servita a viverci dentro ed è sempre parsa un ottimo
investimento, anche perché non se ne conosce il valore ogni giorno, come
purtroppo capita con gli altri investimenti (dico purtroppo per chi non se ne
intende ed è precipitoso).
L’altro “noto”
rifugio tradizionale sono stati i titoli di stato (BOT, CCT, BTP) e le
obbligazioni bancarie, oggi deludenti per i bassi rendimenti (lo erano anche
una volta, ma le persone tendono a non tener conto degli effetti
dell’inflazione).
La fiducia
frettolosa nelle nostre intuizioni ha condotto a una concentrazione estrema dei
risparmi. Essi sono per due terzi immobilizzati in case, e, per il resto,
legati comunque ai destini dell’Italia. E questa scelta non deriva da un
sentimento generoso di patriottismo e di generosità (purtroppo), dal voler
affidare i propri risparmi ai destini di un paese vacillante, ma semplicemente
dai fattori sopra esaminati, fattori che agiscono in modi di cui i più non sono
consapevoli.
Un consulente
razionale non avrebbe mai fatto questa scelta. E tutto ciò dipende, alla fin
fine, da come funziona la nozione di controllo di cui vi ho già parlato. Siamo
delusi dallo scoprire che un consulente non ha le cose sotto controllo nel
senso che noi diamo a questo termine e, per converso, evitiamo di capire che
noi le controlliamo ancora meno, stendendo un velo d’ignoranza sulle
conseguenze delle nostre scelte. Nella prossima lezione vedremo meglio perché gli
errori nella gestione dei risparmi sono diversi dagli altri tipi di errori.
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