Alcuni anni fa,
prendendo visione della Mifid, mi accorsi (dal mio punto di vista) di alcune
falle in quell’originaria stesura e dei problemi che di conseguenza sarebbero potuti
emergere. Uno di questi consisteva nel dover valutare molto attentamente, da
parte del promotore finanziario, ciò che avrebbe potuto affermare a tutte
quelle persone con le quali non sussisteva un formale rapporto di lavoro.
Mi venne da riflettere
sulle eventuali conseguenze di un parere espresso in un contesto normale,
magari davanti a un buon bicchiere di vino, a un amico o a un conoscente su un
titolo o su una posizione da assumere (o evitare) in un determinato momento di
mercato.
Se un amico mi
avesse chiesto se fosse stato meglio vendere o mantenere una posizione che deteneva
in quel momento nel suo portafoglio e io avessi dato un parere - del tutto
personale - di venderlo, magari, e se quell’amico sulla scorta delle mie
affermazioni avesse agito di conseguenza fidandosi della mia personale opinione
la quale, a distanza di tempo, si fosse rivelata una vera e propria cantonata, che
conseguenze avrei potuto avere?
I colleghi ai
quali espressi questi miei dubbi rigettarono la mia ipotesi come non fondata; cosa
mai poteva accadere esprimendo una libera opinione? La cosa finì lì ma, per
prudenza, da allora ho sempre evitato di esprimere facili pareri a chiunque non
avesse con me un rapporto di lavoro regolamentato a sensi di legge in virtù del
fatto che non avrei potuto entrare correttamente nel merito della questione in
assenza di informazioni indispensabili come la conoscenza del patrimonio, della
propensione al rischio, degli obiettivi, dell’orizzonte temporale di
investimento, ecc.
Il dubbio di
agire con eccessiva prudenza mia aveva accompagnato sino ad ora ma adesso la
questione si fa molto più chiara in forza di una sentenza del Tribunale di
Milano che si è espresso attraverso una sentenza lo scorso 21 gennaio. Vado
pertanto a far luce sulla vicenda che ha prodotto questa sentenza.
La vicenda
riguarda un promotore finanziario che
aveva formulato una raccomandazione di investimento a un cliente senza alcun
conferimento di incarico in questo senso. Seguendo il consiglio, il cliente
aveva effettuato due bonifici ad una banca straniera, la quale aveva provveduto
ad acquistare per conto del cliente stesso strumenti finanziari atipici e privi
di rating, di cui il promotore non aveva precisato né la tipologia né il grado
di rischio.
Con questa
sentenza, il tribunale di Milano ha dunque voluto chiarire i confini tra il TESTO
UNICO BANCARIO, ovvero la normativa di riferimento per tutto ciò che
riguarda le banche, e il TESTO UNICO DELLA FINANZA, che disciplina
invece il settore dell’intermediazione finanziaria: in pratica se un promotore
finanziario fornisce a un cliente della banca consigli che si traducono in un
atto riconducibile a un contratto bancario - come un ordine di bonifico - la
sua attività risulta riferibile alla prestazione di un servizio di
investimento, con la conseguente applicazione dei doveri di cui all’art. 21
del Tuf. La sentenza condanna il promotore - e la banca in via solidale -
al risarcimento del danno nei confronti dell’investitore. Il promotore è
inoltre condannato a manlevare la banca per le somme dovute all’investitore in
forza della sentenza.
Se il
promotore pertanto fornisce consigli personali di investimento al cliente,
potrebbe essere responsabile del danno sofferto da quest’ultimo per le
eventuali perdite registrate.
Il Tribunale
di Milano ha dunque stabilito che l’intermediario fosse responsabile in quanto
le raccomandazioni personalizzate furono formulate in violazione dei doveri
previsti dall’art. 21 del Testo Unico
dell’Intermediazione Finanziaria, ribadendo “l’obbligo del promotore finanziario di fornire al cliente,
prima dell’operazione, informazioni adeguate e corrette circa le
caratteristiche dell’investimento, necessarie per consentire al cliente scelte
consapevoli riguardo alla convenienza economica dell’operazione finanziaria”.
Attenzione
dunque nel parlare di finanza al di fuori dello stretto ambito professionale e
senza uno specifico contratto, ma al di là di ciò emerge, a mio parere, la
delicatezza che l’attività di consulenza in ambito finanziario riveste e il
pieno riconoscimento di ciò da parte del legislatore e della magistratura,
chiamata a giudicare l’operato degli addetti ai lavori.
Purtroppo,
sempre a mio parere, le recenti iniziative in corso, che vorrebbero far
confluire in un unico albo promotori finanziari e consulenti indipendenti e
rinominare i promotori in consulenti, non mi sembra andare nella stessa
direzione. Non credo che i risparmiatori siano in grado di valutare in modo
appropriato le differenze fra i diversi approcci professionali di persone che apparentemente
svolgono un’attività simile rammentando che il legislatore ha nettamente distinto
e separato le attività di collocamento da quelle di consulenza. Quest’ultima
infatti viene considerata un servizio e gli operatori devono essere
esplicitamente autorizzati per esercitarla.
Infine,
qualora ce ne fosse bisogno di rammentarlo, vado a precisare che la consulenza
deve avere un esplicito carattere di personalizzazione con l’implicazione, a
monte, di una approfondita conoscenza del profilo finanziario dell’investitore e
delle sue necessità di investimento. La consulenza dunque è un’attività ben
diversa dal collocamento (rammento che in Italia è quest’ultimo la modalità più
diffusa nelle relazioni d’affari intercorrenti tra investitori e intermediari)
che, per quanto possa essere svolto in modo proficuo e corretto, lascia pur
sempre dei vuoti relazionali e professionali evidenti, tanto che nei più
evoluti paesi occidentali il collocamento costituisce ormai una modalità in
netto regresso nei rapporti di lavoro in ambito finanziario.
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