La meravigliosa scoperta dei neuroni specchio da parte di un
gruppo di ricercatori dell’Università di Parma capitanato dal Prof. Giacomo
Rizzolatti, vincitore del Brain Prize 2014, ha indotto alcuni studiosi a
supporre che, siccome siamo dotati di neuroni capaci di “leggere” le intenzioni
altrui, quanto più una persona è priva di intelligenza emotiva, e non è quindi
in grado di intuire le nostre emozioni, tanto più può essere cattiva nei nostri
confronti.
Questo è vero: per fare cattiverie bisogna disumanizzare la
vittima, non vederla come appartenente alla nostra stessa specie o gruppo
culturale, considerarla quasi priva delle nostre emozioni.
Ma non vale il contrario. Non c’è alcuna garanzia che una persona
dotata di intelligenza emotiva sviluppata, che sappia cioè decodificare i
nostri stati d’animo in modo preciso, e per noi sorprendente, non sia capace di
farci cattiverie. Anzi, le può fare meglio, se trae piacere dal fare
cattiverie, proprio in quanto sa leggere i nostri stati d’animo.
L’intelligenza emotiva non comporta automaticamente bontà.
E’ vero, peraltro, che se vediamo fare cattiverie a un essere
inanimato, per esempio un cadavere o un robot, noi tendiamo a umanizzarlo, cioè
a immaginarlo come dotato di più qualità mentali di quanto non facciamo quando
nessuno gli fa cattiverie (del tipo: infierire sui cadaveri o strappare i
circuiti elettronici dei robot).
Questa tendenza risulta confermata da un elegante esperimento,
pubblicato nel 2013, che mostra appunto che noi umanizziamo le vittime di
cattiverie altrui, anche se si tratta di oggetti inanimati (robot, cadaveri,
cfr. Legrenzi su L’empatia, il bene, il male, Almanacco delle scienze di
Micromega, 2014, pp. 122-135).
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