Nei mesi scorsi
pubblicai dei redazionali inerenti la delicata situazione in cui versavano
alcuni istituti di credito (anche veneti) e la
possibilità che questi, ed altre banche non rientranti in quella lista, potessero
produrre dei negativi effetti sulle tasche dei risparmiatori, chiamati a
rispondere a loro volta con l’entrata in vigore della nuova normativa sul “bail-in”.
Dopo qualche
mese la cronaca annunciò che due importanti istituti veneti, la Banca Popolare
di Vicenza e Veneto Banca presentavano a loro volta delle crepe nei conti cui fece seguito un ridimensionamento del valore delle loro azioni,
un’ipotesi che da anni ho evidenziato come possibile, se non addirittura
probabile, ai miei clienti.
Ora la
situazione si è ulteriormente appesantita e Gian Antonio Stella, il coautore
del celeberrimo libro “La Casta”, ha inteso dire la sua con un articolo
pubblicato in questi giorni sul “Corriere della Sera”, articolo amaro che mette
il dito nella piaga sulla situazione che si è venuta a creare per moltissimi
miei corregionali possessori di azioni ed obbligazioni della Popolare Vicentina.
E’ un caso specifico ma in molti temiamo che questi fatti si potranno estendere
in futuro ad analoghe situazioni e la nuova normativa non consente di prendere
alla leggera tali eventi.
L’articolo si intitola “ Imprese, azionisti, famiglie.
La lunga illusione di Vicenza ”
che di seguito riporto integralmente. Buona lettura.
«La banca degli imbriaghi spolpi». Cioè degli ubriachi fradici. Nello
sfogo di un lettore sul Giornale
di Vicenza contro i rei dello scandalo della Banca Popolare c’è del vero. Perché quella che per un
secolo e mezzo è stata il salvadanaio della
provincia più industriale d’Italia sta sprofondando per una sbornia di ambizione.
Sbornia che rischia di finire, come tutte le sbornie, nel crollo sul pavimento.
L’ultima lacrima dello sgocciolio di cattive notizie che avvelenano da mesi le
certezze dei berici, che «prima credevano nella Madonna di Monte Berico, poi
nella Popolare», è scivolata giù ieri mattina dalle pagine di quello che
intorno alla Basilica Palladiana ha il peso del Wall Street Journal nel
distretto finanziario di New York. Cioè il Giornale di Vicenza.
Dove Marino Smiderle ha spiegato chiaro e tondo ai propri lettori che non devono farsi illusioni: quando la «Popolare» andrà in borsa, la
prossima primavera, ogni azione potrebbe valere poco più che un sesto di
quanto valeva (meglio: di quanto la spacciavano) pochi mesi fa. Altro che il
ritorno all’utile promesso per il 2016 nonostante «la perdita di esercizio,
dettata dai criteri prudenziali introdotti dalla Bce, di 823 milioni»!
Dopo il deprezzamento iniziale delle azioni da 62,5 a 48 euro
(-23%) ad aprile, quando «il patrimonio tangibile iscritto a bilancio era pari
a 3,35 miliardi di euro», infatti, «il patrimonio netto tangibile è sceso
attorno ai 2 miliardi». Risultato: un valore delle azioni attuali «compreso tra
12,85 e 15 euro». Ma che potrebbe perfino, secondo i più pessimisti, essere più
basso. Fino, appunto, a una decina di euro. Un trauma, per i vicentini.
Per i dipendenti, che nella «loro» banca avevano investito non solo le energie
ma anche i risparmi. Un trauma per gli imprenditori convinti che la «Popolare»,
nella scia degli anni magici del Nord-Est, fosse davvero quel miracolo che
dicevano i vertici, capace nel pieno della crisi e dei tracolli bancari di non
perdere punti (grazie alla scelta di stare lontani dalle quotazioni in borsa)
ma anzi di crescere, crescere, crescere. Un trauma per le famiglie che avevano
depositato agli sportelli «amici» anche le liquidazioni, lasciandosi convincere
magari dal parente cassiere, racconta l’avvocato Claudio Mondin, «di quanto
fosse sicuro comprare azioni di quella banca che magicamente superava ogni
difficoltà, col risultato che qualche bidonato si pone ora il problema: se
faccio denuncia, il mio parente alla cassa avrà dei guai?».
Sono 35 mila gli azionisti vicentini della banca. Uno ogni
venticinque abitanti scarsi. Una ogni dieci famiglie. Per capirci: è come se a
livello nazionale si dibattessero tra i flutti d’un mare in tempesta, con
l’incubo di annegare, quasi due milioni e mezzo di italiani. Mettetevi al posto
loro: per anni si sono sentiti la locomotiva del Veneto, a sua volta locomotiva
dell’Italia. Statistiche pazzesche. L’associazione industriali provinciale più
forte d’Italia dopo Milano e Torino. Un’impresa ogni dodici abitanti. Un tasso
di disoccupazione oggi al 6,7%: la metà della media nazionale. Un fatturato
industriale di 38 miliardi, un export di 16. La proprietà allargata a 117.000
soci di una banca via via dilagata in Friuli, Toscana, Lazio, Lombardia,
Sicilia… E di colpo: flop!
Perfino Luca Zaia, che dopo la decisione di
Renzi di adeguarsi ai diktat europei e obbligare le «popolari» a trasformarsi
in S.p.A. era saltato su («È una vergogna: si sta chiudendo di fatto tutto
quello che è la banca del territorio») sembra più prudente. Resta dell’opinione
che sia stata «una riforma violenta, senza i tempi necessari…». Ma «l’idea che
ci siano quotazioni che si formano fuori da un mercato libero», ha detto al
Gazzettino, «è irrituale e pericolosa». Sul banco degli imputati, anche se
scarica tutto sui suoi collaboratori più prossimi, c’è Gianni Zonin, che
partito dal vino era riuscito a farsi largo tra i banchieri di punta. Da
vent’anni, come ha sibilato al giornale on-line Lettera 43 Gian Carlo Ferretto,
uno dei suoi nemici dichiarati, ha avuto un «potere illimitato». Tanto che
qualcuno ammiccava sulla «eredità delle zeta». Da Carlo Zinato, il vescovo-padrone
che entrò a Vicenza l’8 settembre 1943 («da un Duce nero a un duce
rosso porpora», si davano di gomito i laici) e decideva ogni nomina venendo
irriso dalla Camilla Cederna che lo chiamava «la Wandissima», giù giù fino a
Zonin. Il «dominus absolutus» (copyright di Alessio Mannino, di Vvox.it) alla cui banca ha affidato i risparmi
come azionista, ahi ahi, la stessa Curia.
Era una manifestazione di status sociale,
fino a pochi mesi fa, l’invito alla festa di compleanno del
banchiere-vignaiuolo nella sua villa di Gambellara. Nessuno osava dirgli di no.
Al punto che, ricorda Vittorio Malagutti su l’Espresso,
accettarono via via di lavorare per lui anche «Antonio Fojadelli, il pm che per
primo indagò sul caso chiedendo l’archiviazione» e poi «è stato ingaggiato come
amministratore in una società controllata dalla Popolare» o Giuseppe Ferrante,
il capo della Tributaria a Vicenza che dopo aver partecipato a una
indagine lasciò l’incarico per «diventare dirigente della banca». Pochi
mesi e, dopo i rilievi della Bce su quelle «auto-valutazioni» domestiche del
valore delle azioni e gli aumenti arrangiati di capitale («le strategie e i
meccanismi adottati dall’istituto e i suoi fondi non garantiscono una copertura
completa dei rischi») e il moltiplicarsi di denunce sulle tecniche usate dalla
banca per ammucchiare nuovi azionisti (compresi i soldi dati loro per comperare
azioni «popolari» o l’aut-aut a chi chiedeva un mutuo: ok, ma solo se diventi
azionista), Zonin pare esser diventato un appestato: «Zeta, l’orgia
del potere».
E con lui rischiano di
essere travolti non solo i suoi co-indagati per «aggiotaggio e ostacolo all’attività degli organi di vigilanza»
(come l’ex direttore generale Samuele Sorato o i consiglieri Giovanna Dossena e
Giuseppe Zigliotto, il capo di Confindustria che due settimane fa invitava
l’Italia a «prender esempio da Vicenza che è un anno avanti») ma
altri ancora. Messi nel mirino, con una serie di denunce per «associazione per
delinquere finalizzata ai reati di aggiotaggio», da famiglie e piccoli
imprenditori. C’è chi racconta, come in un esposto del M5S, avventure
incredibili: per aver dei fidi sarebbero stati costretti a comprare azioni a
62,50 euro l’una, indebitandosi con la banca stessa. Risultato: pagano un
debito per azioni oggi invendibili che
rischiano poi di valere un sesto. Può rialzarsi, dopo questa ciucca, «la banca
degli imbriaghi spolpi»? Sì, giurano i nuovi dirigenti della «Popolare»,
sostanzialmente commissariata dalla Bce. Una volta salvata, sia pure a caro
prezzo, però, è difficile che resti «vicentina».
Quanto a recuperare la fiducia dei vicentini che la vedevano come
«il» salvadanaio ci vorrà del tempo… Molto tempo.
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Gian Antonio Stella |
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