Al lavoro nella sede di Morningstar
Passando a temi diversi le cose più interessanti sono emerse da una serie di analisi retrospettive che indicano inequivocabilmente come gli asset di portafoglio ben diversificati (in senso tecnico, ossia decorrelati) e gestiti con criteri statistici e quantitativi abbiano retto soddisfacentemente all’ondata d’urto che ha colpito i mercati negli ultimi 12 anni. Siamo in un mondo “non normale” che sta modificandosi sovvertendo le regole tradizionali. Paesi storicamente solidi sono entrati in difficoltà, altri stanno emergendo da situazioni di endemico sottosviluppo, altri sono avviati verso una crescita impensabile solo pochi anni or sono.
Le politiche di welfare in occidente sono progressivamente rivisitate e ridimensionate, i debiti accumulati nel passato stanno zavorrando la crescita delle economie (ex)sviluppate, le tensioni politiche e la possibile disgregazione dell’euro inducono a migliorare e razionalizzare l’approccio all’investimento.
In questo senso ho ravvisato una matrice comune fra un tipo di approccio all’investimento illustratoci dagli analisti di Morningstar e una rivisitazione degli assunti statistici della teoria di Markowitz che sono stati rielaborati in Italia. Il fine è lo stesso, ossia dotarsi di un approccio più dinamico all’investimento che la teoria classica di portafoglio non può esprimere come tale e che la rendono ormai inadatta alla costruzione tout court di portafogli efficienti in presenza di turbolenze così forti come quelle attuali. Del resto i frame temporali estremamente diversi fra quelli usati dai planner americani rispetto a quelli italiani creano ulteriori difficoltà agli operatori nella scelta dello strumento più idoneo. Personalmente resto convinto che un approccio unico e statico non possa rispondere con efficienza in situazioni di gravi squilibri economici come quelli attuali.
Europa e Euro restano infine delle belle preoccupazioni anche oltre oceano. Gli analisti americani (ho partecipato anche al Forum di Chicago) sostanzialmente abbracciano l’ipotesi che alla fine prevalga la ragionevolezza all’interno della comunità europea. Se l’Euro si disintegrasse nessuno uscirebbe vincitore, la potenza di fuoco che la comunità europea potrebbe avere nei confronti degli altri grandi poli produttivi e di consumo internazionali si dissolverebbe con il ritorno alle economie sovrane, i costi materiali sarebbero elevatissimi e supererebbero quelli di un salvataggio del sistema; dunque saremmo dei pazzi a non attuare al più presto quelle politiche (ormai abbastanza ben delineate) che consentirebbero all’Europa comunitaria dapprima una blindatura nei confronti delle spinte centrifughe e successivamente un ritorno alla crescita.
Data la loro posizione di stato sovrano dotato di istituzioni economiche e finanziarie centralizzate è ovvio che si attendano un’evoluzione in tal senso anche da parte dei paesi europei; si aspettano che i nostri governi concordino al più presto politiche comuni sotto il profilo fiscale, di bilancio, di attenzione alla spesa, di armonizzazione dei nostri welfare, insomma, di fare al più presto questi benedetti stati uniti d’Europa mettendo in comune molto di più di quello che oggi si sono reciprocamente concessi (e che ci starebbe condannando alla disgregazione).
L’alternativa esiste ed è che tutto vada a rotoli ma diversamente da noi il problema lo vivono di riflesso; certamente il fallimento del progetto europeo provocherebbe un lungo periodo recessivo con danni inimmaginabili a livello globale ma almeno i loro sarebbero danni collaterali mentre a noi resterebbero le macerie. Dunque, se non vogliamo suicidarci e trascinare il mondo intero in una recessione lunghissima, si facciano questi passi avanti verso l’integrazione e così sia.
Peccato che tutto ciò non sia in mano alle imprese, ai lavoratori, agli accademici e agli economisti ma sia nelle mani dei politici che qualche problema di consenso cominciano ad averlo. Non sarà una partita facile cercare di convincere le formiche ad accordare fiducia alle cicale, come non sarà facile per le cicale accettare che le formiche dettino i ritmi della loro vita e si mettano a frugare anche sotto le coperte per vedere che tutto sia in ordine. Ma non c’è scelta.
Gira e rigira, al di fuori del mondo politico, almeno in questa occasione economisti e esponenti della finanza d’oltreoceano e nostrani sono d’accordo. La rotta è segnata, speriamo che il capitano non si ostini a viaggiare sotto costa, con tutti gli scogli che ci sono (ogni riferimento ad un episodio realmente accaduto è puramente voluto).
Nelle loro previsioni (sperando che si avverino) il riaggiustamento sarà portato a compimento in un arco di tempo che va dai 18/24 mesi ai 10 anni, a seconda dell’efficacia delle manovre e del contesto economico generale (non dimentichiamo che un po’ alla volta stiamo rallentando anche le economie emergenti).
Mi fermo qui. Entrare in disquisizioni tecniche e nuove teorie di portafoglio sarebbe estremamente noioso per i più e scendere in dettagli per andare incontro alla soddisfazione di pochi appassionati “tecnici” avrebbe bisogno di ben altro spazio.
Dunque, incrociamo le dita e auguriamoci che i signori della politica accolgano, oltre ai nostri, anche gli inviti degli analisti americani e ci regalino un’estate serena. Poi, naturalmente, maniche rimboccate e lavoro a “testa bassa”; come sempre, per avere qualcosa, bisogna prima guadagnarselo.
Ormai lo sappiamo bene, in economia non esistono pasti gratis e non c’è nemmeno più la mensa dei frati cappuccini pronta ad accoglierci. Il sacco delle noci di Fra Galdino (Manzoni ndr, per chi ha riposto nell’ultimo scaffale della libreria i Promessi Sposi con l’intento di non rileggerlo mai più) era forato e il contenuto si è perso strada facendo.
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